Simone Moro, l'uomo delle invernali

Simone Moro è stato ospite della rassegna «Mese Montagna», alla palestra del polo scolastico di Vezzano, il 23 novembre. L’alpinista bergamasco, 51 anni, è l’unico ad aver salito quattro vette al di sopra degli ottomila metri in invernale, senza ossigeno.

L’ultimo suo ottomila scalato d’inverno, nel 2016, è il Nanga Parbat, una durissima esperienza con l’altoatesina Tamara Lunger che si è fermata a pochi metri dalla cima. In vetta con lui Alex Txikon e Ali Sadpara. Nel 2011 ha scalato sempre in inverno il Gasherbrum II. Nel 2009 ha salito nella stagione fredda il Makalu. Il suo primo ottomila in invernale è stato lo Shisha Pangma, nel 2005 con il polacco Piotr Morawski. Al suo attivo, Moro ha otto vette al di sopra degli ottomila metri. Sugli ottomila, è stato uno dei precursori, con il russo Anatolij Boikreev, scomparso nel 1997 sull’Annapurna in inverno, delle scalate agli ottomila in velocità.

Veloce, ha salito il Cho Oyu con due alpinisti trentini: Franco Nicolini e Mirco Mezzanotte, nel 2002. Tra le sue attività, oltre a narrare nei libri le sue avventure, c’è quella di pilota di elicottero.

Moro, gli ottomila nella stagione fredda sono i suoi obiettivi alpinistici.
«Scegliere la stagione più inospitale per salire in prima invernale vie agli ottomila è una delle nuove frontiere dell’alpinismo moderno, che lo proietta in un lungo futuro. L’alpinismo invernale non l’ho inventato io e non nasce oggi. Le famose pareti nord delle Alpi in invernale, venivano fatte già 70 anni fa. Io ho proiettato queste salite, che si facevano sulle Alpi, sulle montagne più alte del pianeta. Ritengo che le quattro cime di ottomila metri, che ho salito in prima assoluta in inverno, siano pagine di storia dell’alpinismo. Di solito le pagine dell’alpinismo che appartengono alla storia sono datate, io penso che possiamo scrivere pagine che entrano nella storia anche recenti, mettendoci fantasia».

Lei ha reso possibile, oggi, ciò che ieri era impossibile, per citare Messner, che con Bonatti è un suo mito.
«Esattamente. Questo non significa mortificare le generazioni precedenti che hanno fatto le salite in passato, anzi. Se non ci fossero state quelle salite non ci sarebbe stata l’evoluzione delle scalate di oggi. Gli ottomila sono stati saliti tutti per primo da Reinhold Messner, poi senza ossigeno, non sono ancora stati fatti tutti in invernale. Manca solo il K2, ma una volta salito in inverno il K2 non finisce l’alpinismo esplorativo invernale. Ci sarà il primo alpinista che le farà tutte in inverno».

L’alpinismo è vivo?
«Sì. Per me l’alpinismo è lontano dal morire. Muore se si ripete ciò che è stato fatto, senza cercare qualche cosa di nuovo, evolvendosi. Per me ci sono molte possibilità: se vuoi fare un’esplorazione a tutto tondo devi capire dove sta l’evoluzione. Per esempio ci può essere la stagionalità, come ho fatto io, andarci in inverno, nell’apertura di vie nuove, ma ci sono un sacco di terreni da esplorare, ci sono migliaia di cime inviolate nel mondo».

Il K2: sarà anche lei della partita quest’inverno?

«Non sarò al K2. Quest’inverno ho un altro obiettivo, che per ora non posso rivelare perché sto ancora definendo il progetto. Al K2 ci saranno due spedizioni, spero lo salgano, io non ho voluto mettermi in competizione.
Per me l’alpinismo invernale vuol dire anche vivere la montagna in solitudine».

Lei ha scalato otto vette al di sopra degli ottomila. Non ha mai pensato di completare la collana e salire, magari non nel periodo freddo, gli altri sei?
«Non sono un "malato" degli ottomila: non è questo il mio obiettivo».

Lei ama raccontare le sue avventure e ha scritto nove libri. Nell’ultimo, «Siberia-71° Là dove gli uomini amano il freddo», edito da Rizzoli, narra la sua avventura con Tamara Lunger in Siberia. È anche pilota di elicottero e fa soccorsi in montagna nell’aria sottile del Nepal, un lavoro molto impegnativo, come fa a conciliare tutto ciò?
«Per quanto riguarda la Siberia ho scoperto un nuovo terreno di avventura, con Tamara abbiamo salito una montagna inviolata di 3000 metri in un luogo eccezionale, c’è una catena montuosa di 1500 chilometri. Lì c’è spazio, se non cerchi la quota, per nuove avventure ed esplorazioni».

Il volo in elicottero?
«La giornata ha 24 ore, se ne dormo 8 per altre 8 mi alleno e le restanti le dedico al pilotare. Riesco, avendo un mio elicottero, a far coincidere tutto in modo ottimale. In questo mi sono di aiuto gli studi che ho fatto, iniziati nel 1989 con l’Isef e poi l’Università con la laurea in scienze motorie nel 2000. Riesco a gestire il mio tempo, il mio fisico e i miei allenamenti. Pilotare è un impegno, per il quale ti devi esercitare continuamente e riesco a farlo».

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