Disputa sulla scalata al Cerro Torre nel 1959 A Trento la «pace» fra Maestri e Messner

di Renzo Maria Grosselli

Cesare Maestri e il Cerro Torre. Una leggenda che il più grande alpinista trentino di tutti i tempi, il più grande al mondo negli anni '50, porta in sé con una infinita tristezza. Tutto si sa, o quasi, della relazione tra Maestri e una delle più affascinanti montagne del mondo (che ha affascinato molti alpinisti trentini, portandosi via la vita di altri, come Fabio Stedile e poi Fabio Giacomelli).

Fu il «malese» Cesarino Fava , emigrato a Buenos Aires, ad invitare Cesare Maestri in Argentina dove quel «grido di roccia» avrebbe costituito «pane per i tuoi denti». Nel 1957 la superspedizione trentina guidata da Bruno Detassis che giunse ai piedi del Cerro ma non lo affrontò. Con Maestri che morse il freno e fu preso dalla voglia assoluta di prendere quella cima. Negli ultimi giorni del '58 il ritorno in Patagonia e all'inizio del '59 l'ascesa col ghiacciatore altoatesino Toni Egger e lo stesso Fava. L'arrivo in vetta sul Cerro Torre, raccontò Maestri. Poi Egger che precipitò portando con sé la macchina fotografica che avrebbe potuto dimostrare la conquista.

Nel 1970 Maestri ed altri (tra cui Ezio Alimonta ) ripartirono per il Torre, che Cesare conquistò usando un compressore di 150 chili col quale attrezzò 350 metri di parete con chiodi ad espansione. Solo roccia, senza risalire il fungo di ghiaccio che ricopriva la vetta in quanto «non fa parte veramente della montagna».

Contestazioni, anche quella volta. Poi lo sfregio. Quando nel 1991 transitò per le sale cinematografiche un film del regista tedesco Werner Herzog, che raccontava quella la sfida. Il titolo del film era «Grido di pietra».
«Il film - cita oggi Wikipedia - si rifà alle vicende realmente accadute a due scalatori che tentarono di raggiungere la cima del Cerro Torre in Patagonia. È il primo film che Herzog gira senza averne scritto la sceneggiatura, e lo ritiene poco suo».

E ancora: «La storia è stata ideata da Reinhold Messner». Non uno qualunque, Herzog, ma «uno dei massimi cineasti viventi, (che) nel corso della sua lunga carriera ha prodotto, scritto e diretto più di 50 pellicole». Non uno qualunque Messner. Maestri si sentì denigrato, usato. E si portò, per anni, un peso sul cuore. Quasi insostenibile. Pochi giorni orsono «l'incontro storico fra Messner e Maestri».

Abbiamo chiamato Cesare Maestri, nella sua Campiglio.
Un dolore svanito?
«Ci abbiamo messo una pietra sopra. Su tutto. Lo abbiamo fatto per l'alpinismo. È inutile continuare a litigare. Chi ne soffre è l'alpinismo. Il contatto è nato tramite Loris Lombardini e l'incontro è avvenuto dove vive, a Povo: ci siamo salutati e ci siamo detti di chiudere definitivamente questa vicenda, per il bene dell'alpinismo. Ora non ricordo più nulla, non mi interessa più niente. Le pietre hanno cancellato le parole».
Ti è costato molto?
«Non l'ho fatto per tarallucci e vino, l'ho fatto per l'alpinismo».
La storia ti ha segnato nel profondo.
«Non ricordo».
Sei più più sereno?
«Più a posto, non più tranquillo. Ma non ricordo più nulla».
Sei stato un grande e chiudi da grande.
«Io all'alpinismo devo tutto. Tutto, tutto, tutto».
Cesarino Fava non sarebbe d'accordo ma direbbe che tu sei il capocordata e quindi...
«Può darsi, sì... ho deciso così e mi pare la cosa migliore per l'alpinismo».
Sei stato tu a cercare questo sbocco? A volerlo?
«No. Il Film Festival ha voluto che presentassi il mio ultimo libro. Poi tutto è nato, credo, da Loris Lombardini che per anni ha cercato la riappacificazione. C'è riuscito».

Era grande il dolore di Cesare Maestri. Tanto che quando nello scorso gennaio gli chiedemmo della cosa, i suoi occhi si bagnarono. In fondo però, lo consolammo, accanto a chi ti critica c'è un ampio mondo che ti adora e ti ritiene uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi: «Non compensa. - ci rispose seccamente - Non compensa affatto. Io sono stato usato».

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