L'autobiografia di Michelle, first lady e mamma

«Nella mia vita, finora, sono stata avvocato, dirigente di un ospedale e direttore di un ente non profit che aiuta i giovani a costruirsi una carriera. Sono stata una studentessa nera della working class in un costoso college frequentato in prevalenza da bianchi. Sono stata spesso l’unica donna e l’unica persona afroamericana presente nella stanza, in molte stanze diverse. Sono stata moglie, neomamma stressata, figlia lacerata dal dolore del lutto. E, fino a non molto tempo fa, sono stata la first lady degli Stati Uniti d’America, un lavoro che ufficialmente non è un lavoro, ma che mi ha offerto una tribuna che mai avrei immaginato. Mi ha stimolato e mi ha reso umile, mi ha tirato su il morale e abbattuto, a volte nella stessa circostanza». E’ uno dei passaggi cruciali della prefazione di «Becoming - La mia storia» di Michelle Obama in libreria da oggi (trad. Chicca Galli, 498 pp, 25 euro) per Garzanti.

Inizia con la più classica delle introduzioni: «Da bambina, le mie aspirazioni erano semplici. Volevo un cane. Volevo una casa con la scala interna, due piani per una famiglia. Volevo, per qualche motivo, una station wagon a cinque porte invece della Buick a due che rappresentava l’orgoglio e la gioia di mio padre. Dicevo che da grande avrei fatto la pediatra. Perché? Perché mi piaceva avere a che fare con i bambini, e imparai presto che agli adulti faceva piacere sentirselo dire. Oh, il medico! Che bella scelta! A quei tempi portavo le treccine, comandavo a bacchetta mio fratello maggiore e riuscivo, sempre e comunque, a prendere il massimo dei voti a scuola. Ero ambiziosa, anche se non sapevo esattamente quali fossero i miei obiettivi. Adesso credo che ‘Cosa vuoi fare da grande?’ sia una delle domande più inutili che un adulto possa rivolgere a un bambino. Come se crescere fosse un processo che a un certo punto finisce. Come se a un certo punto si diventasse qualcosa e basta, fine della storia. Nella mia vita, finora, sono stata avvocato, dirigente di un ospedale e direttore di un ente non profit che aiuta i giovani a costruirsi una carriera. Sono stata una studentessa nera della working class in un costoso college frequentato in prevalenza da bianchi. Sono stata spesso l’unica donna e l’unica persona afroamericana presente nella stanza, in molte stanze diverse.

Sono stata moglie, neomamma stressata, figlia lacerata dal dolore del lutto. E, fino a non molto tempo fa, sono stata la first lady degli Stati Uniti d’America, un lavoro che ufficialmente non è un lavoro, ma che mi ha offerto una tribuna che mai avrei immaginato. Mi ha stimolato e mi ha reso umile, mi ha tirato su il morale e abbattuto, a volte nella stessa circostanza. Solo ora comincio a elaborare quanto è accaduto in questi ultimi anni, da quando, nel 2006, mio marito cominciò a parlare dell’idea di candidarsi alla presidenza, fino alla fredda mattina di gennaio in cui sono salita su una limousine con Melania Trump per accompagnarla alla cerimonia d’insediamento di suo marito. Un bel viaggio, non c’è che dire». (foto Shelley Call - Aurora Photo)

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