Per la tesi di laurea viaggio con i migranti lungo la Balkan Route

"Da noi, in Siria, c'è un detto che in tedesco vuol dire: tutto ciò che mi costringe a un viaggio così amaro, è ancora più amaro". Il dolore, gli stenti, le restrizioni fisiche, materiali e politiche subite incrinano la voce di Amar mentre ripercorre la sua storia. Sullo schermo del cellulare, una linea verde parte dalla Serbia, passa in Slovenia e in Austria, termina in Germania: è una striscia che si allarga pian piano su Google Maps, è stato il calvario che Amar, 22 anni, e la sorella Mariam, 33, hanno attraversato per fuggire dalla guerra e iniziare una nuova vita. 

Amar e Mariam sono riusciti a raggiungere la meta, in tanti non ce la fanno. Assenti nel paese di partenza, spesso invisibili in quello di arrivo: (non)persone, come denuncia il documentario diretto e prodotto da quattro neo laureate dell'università di Bologna, Chiara Ercolani, Alessandra Mancini, Giulia Monacoe Valentina Nardo. Il film, con un titolo che è già un atto di accusa contro l’indifferenza del mondo occidentale, è stato presentato in anteprima a Forlì, al Meet the Docs! Film Festival 2018.

“L’idea ci è venuta chiacchierando al bar, nei giorni dell’inverno 2016, quando si parlava del grande gelo a Belgrado che piegava i migranti in cammino sulla rotta balcanica”, racconta Giulia Monaco, nata a Eboli (Salerno) 24 anni fa, che al rapporto tra mass media e fotografia (sua passione innata) ha dedicato la tesi di laurea in Laboratorio di produzione audiovisiva alla facoltà di Mass media e politica dell’università di Bologna, campus di Forlì. “Discutevamo di muri, di confini: abbiamo deciso di farne il focus della tesi, andando però a vedere di persona”. Le quattro registe hanno iniziato così un viaggio di quindici giorni – completamente autofinanziato – attraverso Montenegro, Bosnia, Croazia, Macedonia, Serbia, in parte in treno, in parte con i mezzi messi a disposizione da Alessandro Botta, responsabile della Caritas nei Balcani. “Alessandro – si accalora Giulia - ci ha fatto entrare nei campi di Tabanovce e di Gevgeljia, tollerati dal governo macedone, dove i migranti arrivano e rimangono per mesi, senza poter uscire, dormendo nei container in condizioni drammatiche e svolgendo le poche attività che i volontari dell’Unhcr o della Croce Rossa cercano di mettere in piedi”. Ancora più difficile la situazione nei campi non ufficiali, “come le barracks, le baracche dietro la stazione di Belgrado dove si dorme tra i rifiuti o si gioca con il pallone di fortuna tra gli scheletri di cemento”.

Chiusa ufficialmente nella primavera 2016, la Balkan Route continua a essere percorsa in silenzio da centinaia di migranti, che rimangono spesso bloccati all'interno delle barracks di Belgrado (da poco smantellate per fare spazio al Belgrade Waterfront), nei campi ufficiali in Macedonia, o in quelli non ufficiali in Serbia e Croazia. Disgraziati che tentano a più riprese di attraversare i confini nella speranza di tornare a vivere, anche se ogni volta la polizia di turno li picchia e li ricaccia indietro. Profughi costretti ad adattarsi, anche nei Paesi di transito, a condizioni di vita disumane, come testimoniano gli operatori delle ong incontrati dalle registe.

"Sulla barca cosa succederà, in mezzo al mare? Ho pregato il mio Dio di prendersi cura dei miei tre bambini", confessa Mariam mentre versa una tazza di tè nero. "A Damasco si viveva bene, giocavo a calcio, sognavo la maturità e l'università. Poi nel 2011 la gente ha iniziato a chiedere: libertà, libertà, libertà. Il regime si è messo contro ed è iniziata la guerra", racconta Amar. "Ho provato per cinque volte ad andare in Grecia, con il trafficante arrivavamo fino a un certo punto, ma la polizia ce lo impediva e ci rimandava indietro. Una volta arrivati a Kos siamo rinati", ricorda un altro migrante.

"We need help", "Please open the border", "Stop war": le scritte campeggiano sui muri sbrecciati come sui fogli di quaderno. "Voglio dire all'Europa che siamo esseri umani: perché si comportano così con noi?", scandisce un profugo. Una realtà “troppo spesso dimenticata dai media e che invece andrebbe urlata al mondo: non è possibile – si indigna Giulia Monaco – che tutto sia più importante dell’avere dignità come persone”. Un grido universale contro gli orrori di tutti i tempi.

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