Viaggio fotografico attraverso l'Umbria ferita Con gli sci tra muri di neve e case distrutte

di Matteo Lunelli

Quaranta chilometri con le pelli ai piedi, tra muri di neve, macerie, tracce di lupi e orsi, paesaggi incantati e terra ferita. Quaranta chilometri tra montagne e pendii, in luoghi diventati tristemente famosi in un attimo e altrettanto velocemente dimenticati, come Castelluccio di Norcia e Arquata del Tronto. Quaranta chilometri da documentare con fotografie tanto spettacolari quanto angoscianti, e da raccontare con lunghi silenzi e profondi sospiri.

Due settimane fa, in Umbria, in tre hanno messo gli zaini in spalla e gli sci d’alpinismo ai piedi e caricato la testa di domande e curiosità, per andare a vedere la terra spaccata, circa 180 giorni dopo il terremoto del 24 agosto e 120 dopo quello del 27 ottobre. Loro sono Christian Leischner, Lorenzo Alesi e Federico Modica: i primi due maestri di sci, uno di Cortina e l’altro di Ascoli Piceno, il terzo fotografo di Predazzo, profondo conoscitore e amante della montagna.

E proprio Federico «Modix» Modica racconta. Partendo dal perché di quei tre giorni, dal perché di quel viaggio. «Siamo andati per vedere, provare a capire e poi per raccontare a chi non sa. Io stesso non sapevo, non potevo immaginare: come tutta Italia e tutto il mondo avevo letto articoli, visto servizi in televisione e guardato fotografie nei giorni successivi al terremoto. Ma quello che ho visto e respirato in quei giorni non lo avrei mai potuto immaginare ed è difficile da raccontare».
Per raccontare, per fortuna, ci sono le fotografie, che a volte sono più efficaci di mille parole. Foto che hanno tutte una caratteristica: il contrasto. Contrasto tra la bellezza della natura e la distruzione dei luoghi. Contrasto tra i colori dell’abbigliamento da sci e quelli della neve e dei mattoni. Contrasto tra ciò che era e ciò che è diventato adesso, dopo venti secondi di scossa.

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Le immagini di Federico Modica nell'Umbria ferita



«Nel mio lavoro ho sempre avuto un’impronta fotogiornalistica e spesso le immagini sono più forti delle parole. Per questo ho detto sì all’invito e sono partito. Ma credo anche che questo reportage non possa esistere senza le parole: le foto colpiscono, ma vanno spiegate perché altrimenti rischiano di essere solo scatti naturalistici».
L’obiettivo è quello di continuare a tenere viva l’attenzione su un’area che continua a essere deserta. Distrutta e deserta. Le telecamere se ne sono andate, i politici hanno fatto qualche selfie e poi sono tornati a Roma a occuparsi di altro. Lì restano militari e Alpini: «Per noi sono stati una salvezza, ci hanno accolti e permesso di asciugare i vestiti nei container. Fanno turni da 48 ore consecutive, poi un cingolato va a prenderli. Controllano i paesi, perché da queste parti gli sciacalli non mancano». E controllano anche i tre sciatori/reporter: «Non è stato facile avere i permessi e a ogni posto di blocco dovevamo mostrarli insieme ai documenti. Poi in certi posti esiste ancora una zona rossa, per il pericolo di nuovi crolli».

Alesi, Modica e Leischner da Arquata del Tronto vanno verso Forca di Presta. Poi Piedilama e Pretare. «Abbiamo camminato in silenzio, guardandoci attorno e rimanendo stupiti a ogni passo. La nebbia, il freddo, la neve, rendevano tutto ancora più impattante. Il primo giorno abbiamo visto il Monte Vettore e i Sibillini, paesaggi stupendi. Poi siamo stati a Forca Canapine, la stazione sciistica, seguendo le tracce dei lupi, chiarissime sulla neve. Al campo scuola di Nordica c’era un silenzio irreale, proprio dove solitamente c’erano bambini e maestri di sci, famiglie e ragazzi. Il rifugio distrutto, la stazione e lo ski-lift anche».
Sciatori, ovvero turisti, ovvero l’economia che gira, soldi che permettevano a quei paesi di vivere. Ora non c’è nulla di tutto ciò. Pensiamo a quando in Trentino ci sono i report delle stagioni invernali: i giornalieri venduti, i passaggi sulle piste, le presenze alberghiere, con tanto di percentuali e statistiche, e i confronti con la stagione precedente. Lassù, in Umbria, i dati sono già tristemente certi: zero. Zero in ogni casella. Nessuno ha trascorso l’inverno lì, a sciare e divertirsi.

«In quella stazione mi ha colpito una bandiera strappata, un tricolore che continuava a sventolare nonostante di stoffa ne fosse rimasta ben poca. Mi è sembrato un simbolo di ripartenza, di speranza».
I tre trascorrono la notte in tenda, nei dintorni di Castelluccio, nel buio più totale. All’alba la sveglia e poi via di nuovo sugli sci. «All’ingresso del borgo c’erano gli Alpini: ci hanno spiegato che, nonostante il permesso, non saremmo potuti entrare a causa del pericolo di possibili crolli. Siamo passati a lato, tra le macerie, tra palazzi inginocchiati e case irriconoscibili. Da un lato il panorama stupendo, dall’altra la tragedia. Dopo qualche minuto in silenzio, siamo ripartiti in direzione Pian Perduto e poi Monte Prata, montando di nuovo le pelli per salire prima a Madonna della Cona e poi dirigerci verso un’altra stazione sciistica. Anche lì silenzio: tanta neve ma nessuno a divertirsi sciando. Abbiamo proseguito poi verso Castel Sant’Angelo sul Nera e Visso, borghi meravigliosi e profondamente danneggiati».

Danneggiati e abbandonati: lassù, ormai, non vive più nessuno. Quella terra ferita se la stanno riprendendo gli animali selvatici e le tracce di lupo e orso sono dappertutto. Solo qualche militare e, in alcune località, qualcuno che non vuole mollare. «Siamo andati in un bar: dentro non si poteva entrare per pericolo di crolli, ma il gestore è riuscito a costruire una sorta di veranda con dei teli di nylon. Si è rimboccato le maniche per provare a ripartire, nonostante tutto. È stato uno dei panini più buoni che abbia mai mangiato».


«DONAZIONI BLOCCATE MA BISOGNA RIPARTIRE»

Non sappiamo se le incredibili fotografie di Federico Modica e il racconto del viaggio sui Sibillini saranno utili per smuovere le acque. Ma la speranza c’è.

«Noi cercheremo di far girare il più possibile questo racconto sui media nazionali, perché purtroppo si parla troppo poco del terremoto e praticamente nulla è stato fatto in questi mesi. Questo stupendo pezzo d’Italia vuole ricominciare a vivere, e può farlo ripartendo dalla incantevole bellezza di quei luoghi».

Lassù, nelle montagne umbre, 180 giorni dopo la scossa, restano macerie, silenzio e lupi. La gente ha perso tutto, la casa e il lavoro, ma non la speranza. Speranza che, però, è ferma nelle casse dello Stato.
«Le donazioni sono ferme a Roma, se si vogliono accelerare i tempi bisogna dare una mano direttamente ai Comuni colpiti. E poi ognuno può aiutare, un domani, semplicemente andando lì in vacanza. Noi, nel nostro piccolissimo, abbiamo provato a dare una testimonianza di ciò che è oggi: con le nostre foto, rarissime ed esclusive, vogliamo provare a raccontare e sensibilizzare. Perché quei luoghi meritano di rinascere».

E perché quei brandelli di tricolore possano essere sostituti con una bandiera nuova e continuare a sventolare sull’Umbria ferita e dimenticata.

Modica, Alesi e Leischner ci tengono a ricordare che chiunque può contribuire al recupero di Arquata del Tronto, con un versamento sul conto corrente del Comune (Iban IT 33 W 0306969370100000000246) usando la causale «Solidarietà Terremoto».

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