Il riscatto dei detenuti tra i fornelli Sfida gastronomica tra carcerati-cuochi

di Flavia Pedrini

Nella sala da pranzo il profumo del timo che accompagna la tagliata di manzo si mescola a quello delle lasagne al forno. Il tintinnio delle posate è il classico sottofondo di un locale affollato. Qui, però, non siamo in un ristorante, ma al piano terra dell'ala femminile del carcere di Montorio, a Verona.
E ieri, il pranzo preparato per una settantina di ospiti, aveva tutto il sapore del riscatto e la bellezza della dignità, spesso calpestata.
Cuochi d'eccezione, per una sfida culinaria che segna un'anteprima nazionale, i detenuti delle carceri di Trento e Verona: da una parte quattro studenti della classe interna all'istituto di pena della Scuola alberghiera "A.Berti" e dall'altra la brigata composta da uno studente del carcere di Spini dell'Istituto alberghiero di Rovereto e Levico Terme e altri tre compagni, che con lui si sono cimentati nella preparazione dei piatti. 
L'idea di una gara in cucina è stata lanciata dalla Camera penale veronese ed accolta subito con entusiasmo da quella di Trento, che in autunno ospiterà la "gara" di ritorno. Ai fornelli - per la cronaca - hanno vinto i veronesi, battendo sul filo di lana la squadra di Trento.
L'avventura, per i cuochi trentini, inizia di buon mattino. Alle 7.30, per Mohamed, tunisino, 27 anni; Marian, 32 anni, rumeno, Salvatore, 50 anni, napoletano e Pietro, 64 anni, mantovano, si apre il cancello di Spini. Partono per Verona con un permesso premio.
Con loro ci sono due volontarie dell'Apas, Sabrina e Giulia, il presidente della Camera penale di Trento, Filippo Fedrizzi, l'avvocato Sara Morolli, che fa parte del direttivo e i due professori dell'alberghiero di Rovereto che insegnano all'interno del carcere: lo chef Giuliano Pilati e Giovanlorenzo Imbriaco, docente di scienze alimentari. In macchina, bastano poche battute con loro per rompere il ghiaccio e accorciare le distanze tra chi si trova in carcere e chi sta fuori. 
«L'insegnamento in carcere è un'esperienza che consiglio a tutti, perché ti cambia la prospettiva», dice Imbriaco.
La pioggia battente che accompagna il viaggio non spegne l'entusiasmo e la leggerezza che si respira è quella di una gita. Una boccata di ossigeno, che spezza la routine della vita in carcere. 
Verso le 9.30 il gruppo è davanti ai cancelli del carcere di Montorio. 
La cassetta che contiene 10 chili di carne "salada", offerta da Segata, è saldamente nella mani di Pietro. Superati i controlli di rito possono raggiungere la cucina. Gli "sfidanti" sono già al lavoro. «Ci hanno accolti bene e il clima era molto bello», racconta Mohamed. Tra loro c'è anche Malik. L'abbraccio con Salvatore e con i due docenti dell'alberghiero raccontano la felicità di chi si ritrova: «Era uno studente a Trento davvero molto bravo e praparato», spiega Imbriaco. Ma è tempo di rimboccarsi le maniche e così, infilato il grembiule, la squadra trentina si mette al lavoro con lo chef Pilati. 
Fuori, intanto, il cielo si apre e la pioggia, che poi torna a battere su Verona, concede un periodo di tregua. Nel cortile, se non fosse per l'alto muro che delimita il perimetro della struttura, lo scenario non sembra nemmeno quello di un carcere. Sulla strada che corre lungo il complesso ci si imbatte in un paio di agnellini appena nati, che camminano incerti, accanto alla mamma. Ma ci sono anche cavalli, tartarughe e cani (è stato aperto un canile, che funge pure da pensione). Sul prato un gruppo di detenuti sta seguendo un corso per ottenere l'attestato di operatore del canile. Nel complesso, le attività organizzate all'interno del carcere danno lavoro ad un centinaio di detenuti. 
Alle 12.30 gli invitati - ci sono anche gli avvocati dell'Osservatorio nazionale carceri - vengono accolti per un aperitivo (il ricavato del pranzo va al reparto di oncologia pediatrica dell'ospedale Borgo Trento). La sfida si gioca su due piatti: carpaccio di carne salada con cappuccio, mela Golden e petali di Trentingrana e tagliata di manzo al ginepro e rosmarino, per la squadra trentina. La brigata del carcere di Verona, invece, sforna lasagna al forno con radicchio di Verona e Monte veronese invecchiato e risotto con asparagi e chiude con il semifreddo all'amaretto.
Per ogni piatto la giuria, guidata dallo chef Andrea Cesaro, giudica presentazione e gusto. «Grazie, mi avete dato tantissimo. Oggi ho imparato molto», le sue parole. Il dolce porta Verona alla vittoria. Ma partecipare non è stato mai così bello. «Sono stati trattati da persone, lo chef ha parlato loro come a dei colleghi. E questo ti ridà dignità», evidenzia l'avvocato Fedrizzi. Ieri Salvatore, Pietro, Mohamed e Marian erano cuochi. Erano persone. Non numeri di matricola.


 

LE STORIE 

Fine pena. Due parole che sono l'orizzonte per pensare al futuro, ma anche un'incognita che pesa come un macigno per chi si lascia alle spalle le porte del carcere. Pietro , 64anni, mantovano, un passato da imprenditore di successo, lo dice senza paura: «Essere vicini al fine pena non è piacevole, c'è una grande incognita». Per questo, riuscire ad immaginare come ripartire una volta fuori, è decisivo: «È importante potersi muovere prima, cercare un appoggio. Io vado a lavorare alla Talea di Trento, che fa parte del Gruppo 78, ma non ho una famiglia che mi aspetta fuori». Pietro produceva tomaie per scarpe. «Avevo 18 persone a Roverbella e 55 dipendenti in Repubblica Ceca». La crisi lo ha messo in ginocchio. «Ho portato io i libri in Tribunale, per chiedere il fallimento. Ma nel 2015 hanno detto che ho sottratto soldi alle banche». Tre anni e sei mesi da scontare. «Io, però, rifarei tutto. I miei dipendenti non hanno perso nulla ed anche i fornitori». Tra meno di un anno sarà un uomo libero. «Ma se non hai lavoro, non hai alternative». Perché chi non ha alcuna prospettiva, una volta fuori, rischia di cadere di nuovo. «Servono percorsi per accompagnare il detenuto ad un reinserimento, perché questo riduce il rischio di recidiva», osserva l'avvocato Filippo Fedrizzi. Si esce migliori dal carcere? «Domanda non semplice. È un mondo difficile. Ci sono incomprensioni, zero privacy. Ma si incontrano anche tante persone diverse e la diversità è sempre una ricchezza», dice Pietro.
In macchina, accanto a lui, era seduto Salvatore , 50 anni, di Napoli centro. La scommessa, per lui, che ha conosciuto più di un carcere, si chiama diploma. È infatti un allievo dell'Istituto alberghiero di Rovereto e Levico. «Io sono al primo anno e il 7 giugno ho l'esame», dice. Ad agosto finirà di scontare la sua pena. Fuori lo attende anche suo figlio, vive a Treviso. «Avevo interrotto la scuola alberghiera a 16 anni, adesso riprendo da lì. Poi finirò la scuola seguendo il serale, una volta fuori». 
Mohamed , 27 anni, tunisino, ha cucinato tutto il tempo, senza toccare nulla, perché c'è il Ramadan. Alla fine è stanco, ma contento. All'andata aveva fantasticato su possibili piatti: «Un mix, tra cucina italiana e tunisina». È in Italia da 15 anni e, fra 9 mesi, avrà finito di pagare il suo conto con la giustizia. «Non è stato facile all'inizio, per me era la prima volta, ora invece esco per andare a lavorare all'Apas. Il carcere ti fa riflettere, puoi pensare a cosa hai sbagliato e migliorare. Ma la maggior parte esce, non ha un lavoro e rischia di ricadere. Invece sarebbe importante farli lavorare, permettere loro di imparare un mestiere e poi aiutarli una volta fuori». Il futuro? «Io sognavo di fare il giornalista sportivo, ma le cose sono andate diversamente. Ma tutto si può fare ancora. E una volta fuori, se non trovo lavoro, faccio le valigie e torno in Tunisia».
Marian , 32 anni,non ha dubbi sulla sua destinazione: fra sei mesi tornerà a casa, in Romania, dove faceva il muratore. «In Romania, da mia moglie e dai miei bambini. Sono due gemelli di 9 anni». Una famiglia lontana, che da mesi non vede. La testa si alza e gli occhi, fino a quel momento timidi, raccontano una struggente nostalgia.

 

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