Il vescovo Tisi denuncia «Coltiviamo indifferenza»

di Daniele Benfanti

La Chiesa di Trento a confronto con i temi della povertà, della malattia, della marginalità che investe gli ultimi, spesso i migranti. "Il povero e il malato profezia per tutti" il titolo del convegno, organizzato dall'arcidiocesi di Trento, che ha chiamato a raccolta nell'aula magna del Collegio Arcivescovile oltre duecento persone, tra religiosi, volontari, fedeli impegnati nelle parrocchie, pastorale della salute, operatori della Caritas e di altre organizzazioni di assistenza. C'è un ponte diretto tra quanto scrisse trentadue anni fa Papa Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo Rei Socialis e quanto, con vibrante energia, ieri mattina l'arcivescovo di Trento, monsignor Lauro Tisi, ha detto alla platea di volontari e operatori diocesani al servizio di malati e poveri. La solidarietà si fa per gli altri, non per sé stessi. Papa Woytjla ribadì ai cristiani che «la solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o superficiale intenerimento, ma è la determinazione ferma e perseverante a impegnarsi per il bene comune». Parole che fanno il paio con l'esortazione di Papa Francesco, qualche tempo fa in visita pastorale a Cagliari, citata da monsignor Tisi: «La carità non è solo erogazione di servizi, né tantomeno esibizione di sé. Ma incontro tra volti». Senza girare troppo intorno al concetto, l'arcivescovo ha centrato il bersaglio in maniera diretta: «Se scoppio di salute e non so piegarmi sul volto dell'altro, non sono un cristiano, sono un morto». Parole volutamente urticanti e provocatorie, che monsignor Tisi ha stemperato con un tocco di balsamo: «Lo so che proprio a voi che operate per gli altri devo dire grazie. Sono consapevolmente sferzante perché troppo spesso coltiviamo l'indifferenza. Anche "migranti" è diventata ormai una parola indistinta. Cerchiamo, spesso senza accorgercene, un confort borghese: un po' di salute, una professione soddisfacente. I parroci corrono il rischio di accontentarsi di una chiesa piena di fedeli. Alcuni vescovi si augurano successo e potere, ovvero non avere contestazioni. Gesù non è questo, non è sicurezze. Non è risposta, ma sovversione delle nostre attese. Non ci consola ma ci spiazza e ci migliora. È l'abbraccio al nemico fino a cancellare se stessi». Dunque, numeri, servizi, efficienza, performance non sono la vera carità. Per legare la fede con la vita ? è stato un altro messaggio scandito da Tisi ? serve scoprirsi nel volto dell'altro. Non in una sagoma, ma in nomi e cognomi «da mettere nella nostra agenda del cuore». Isolamento, tristezza e paura legate alla solitudine sono oggi emergenze più forti ? spesso ? dello stesso dolore fisico e materiale imposto da malattie e povertà. Don Cristiano Bettega, delegato diocesano dell'Area testimonianza e impegno sociale, contiene a stento un sorriso amaro quando gli si chiede del prossimo futuro nel settore dell'accoglienza ai migranti a livello nazionale e in Trentino: «Sicuramente dovremo contare ancora di più sul volontariato. Provocandolo e sostenendolo al tempo stesso. Società civile e mondo ecclesiastico devono farsene carico insieme. Le leggi vanno rispettate anche se non si è d'accordo. Ma c'è una differenza. La legge dello Stato riduce l'accoglienza ma non mi chiede di amare. Quella del vangelo sì». Nel corso della mattinata sono stati proiettati due video che documentano alcune iniziative della diocesi a beneficio di malati, poveri e emarginati trentini. Una canonica ormai vuota (a Revò; sono tre in Val di Non) adibita ad accoglienza di persone con fragilità in cerca di un futuro migliore. Un appartamento a Trento a disposizione delle famiglie dei bambini di ogni provenienza che seguono e cure a Protonterapia. Indicazioni pratiche su come accostarsi a malati e poveri sono arrivate da Marisa Bentivogli, ex medico, coordinatrice del Volontariato assistenza infermi della Caritas di Bologna: «Fare visita a chi soffre preferibilmente in coppia. Aiutare i bambini e i ragazzi a superare il tabù sociale della malattia e della morte. Portarli nelle corsie degli ospedali, dove le suore non ci sono più, è terapeutico per loro e per i malati. Serve un servizio di presenza, anche silenzioso; non solo una presenza di servizio, per la quale c'è apposito personale».

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