In pensione il giudice Ancona Da Stava a Mani Pulite

di Sergio Damiani

Carlo Ancona, il giudice dalla tempra montanara, lascia la toga. Oggi, a Rovereto, entrerà in aula per le ultime udienze penali della sua carriera. Il magistrato che ha legato il suo nome ai maggiori procedimenti giudiziari transitati attraverso il  Tribunale di Trento - dai morti della Sloi al crac di  Fassalaurina, dal disastro di Stava alle tangenti Autobrennero - chiude la sua carriera per andare in pensione a quota 112: 70 anni ben portati (li compirà il primo gennaio) e 42 anni di magistratura, sempre nella  prima linea della giustizia penale. Il magistrato nato - «per caso», precisa - a Teramo, ora si dedicherà a tempo pieno ad una passione che lo perseguita sin dall’infanzia trascorsa in Molise: faticare in montagna.

Giudice, perché ormai oltre 40 anni fa scelse proprio Trento?

Secondo le mie zie, purtroppo scomparse, era una scelta obbligata perché avevo caratteristiche trentine. In realtà le ragioni furono almeno tre: frequentare la montagna, il Filmfestival e un lavoro interessante. In Tribunale a Trento arrivai nell’ottobre del 1977.

Pochi mesi dopo partì l’indagine per i morti alla Sloi.

Ero in città da quattro mesi. Feci parte del collegio giudicante. La nostra sentenza, per l’epoca, fu innovativa e confermata anche dalla Cassazione.

La città era consapevole di avere al suo interno un insediamento industriale di quella pericolosità?

No, anche se la lavorazione della benzina con piombo tetraetile antidetonante era stata avviata in origine  per rifornire la Luftwaffe e poi per produrre benzina super.

Ci furono morti?

Tre o quattro. Ricordo che un operaio era anche un alpinista. Morì sul sentiero per il Croz dell’Altissimo. Il piombo tetraetile si ferma nelle zone grasse, come fegato e cervello, e lui aveva continui giramenti di testa che lo fecero precipitare.

Facciamo un passo in avanti: 1978 lo scandalo di Fassalaurina e le colate di cemento a Mazzin.

Il procedimento finì sul mio tavolo perché mi occupavo di fallimenti. Seguii quindi le ultime fasi, quando sparirono contanti per una ventina di milioni. Si ipotizzava che i soldi scomparsi fossero stati usati per pagare tangenti, ma non furono mai trovati riscontri sufficienti.

Per molti anni, nel suo studio, oltre alle foto del Gran Sasso, era appesa una grande immagine del disastro di Stava. Come mai non c’è più?

Faceva parte degli immensi cartoni che contenevano gli atti dell’istruttoria. Per anni l’ho portata con me. Poi, a 30 anni dal disastro, venni chiamato dalla Susat per parlare di Stava. Consegnai quella foto alla Sat e ora è appesa nello studio della presidente. Era inaccettabile che quella foto rimanesse solo stimolo per la mia memoria. Alla Sat ora è patrimonio collettivo. Non è certo una bella immagine da vedere, ma dice molto su come possa essere ridotta la montagna per l’incuria e l’indifferenza dell’uomo.

Lei fu il giudice istruttore del processo di Stava: c’erano stati 268 morti. Quanto le pesò quell’incarico?

Moltissimo, sia sul piano umano, sia su quello professionale. La tragedia di Stava ci parla dei limiti. Quelli allo sviluppo che si pensa  debba essere senza limiti. I due bacini non erano altro che enormi mucchi di fango, creati dall’arricchimento della fluorite e parcheggiati in cima ad una valle alpina. Il secondo limite è quello della conoscenza: non ho mai capito come quelli che apparivano come due colli, in pochi secondi divennero una massa semiliquida che precipitò a valle a 60 chilometri orari. Poi c’è il limite della professione: per quanto tu possa fare non potrai mai impedire quello che è successo. Stava è uno dei tanti esempi della banalità del male: ogni giorno si accumulavano pochi chili, ogni gesto di per sé era innocente. La somma, però, portò alla morte di 268 persone.

La Provincia che ruolo ebbe?

Quella enorme discarica a cielo aperto non era nascosta. La Provincia aveva autorizzato tutte le attività di estrazione e lavorazione del minerale, compreso il taglio degli alberi a monte per allargare il mucchio di rifiuti.

Tutti sapevano ma nessuno aveva tirato le somme....

Proprio così. Solo un sindaco di Tesero chiese alla Provincia; “Siete sicuri che non viene giù?” E quelli risposero: “Tranquillo, ce lo hanno detto loro...”

Stava fu anche un esempio di giustizia efficiente.

Questo, va detto, anche grazie ad un collegio penale di straordinaria efficenza formato da tre giovani magistrati: Marco La Ganga che presiedeva, Dino Erlicher e Alberto Pallucchini a latere.

Facciamo un altro balzo temporale: 1993, anche in Trentino deflagrava  Tangentopoli.

La sentenza principale fu quella sulle tangenti A22, confermata poi in Cassazione per la parte per cui non scattò la prescrizione.

Venticinque anni dopo il Trentino può dirsi diverso?

Non ho più né visto né sentito parlare di quei meccanismi di percezione di tangenti così organizzati. Se ci sono sono così ben celati da non essere scoperti. Allora invece si sapeva benissimo come andavano le cose.

Le mazzette A22 finanziavano i partiti.

Le tangenti giravano negli appalti per la manutenzione. Il quadro tracciato dai pm in fatto era chiarissimo, anche se il tema in diritto non era così scontato. I soldi, raccolti in gran parte da Pancheri, servivano per finanziare soprattutto ma non solo, la corrente Dc che faceva capo a Flaminio Piccoli. Denaro che fu  utilizzato nei modi più vari come per finanziare la democrazia cristiana cilena.

In questi anni lei si è occupato più volte di casi di femminicidio. La condanna in abbreviato a 30 anni, massimo della pena, inflitta all’avvocato Vittorio Ciccolini ha segnato un solco.

La difesa puntava alla semi-infermità sostenendo che l’omicidio si poteva spiegare solo con una forma ossessiva che ridonda a pazzia. La sentenza si occupò di spiegare accuratamente che non era affatto pazzia, ma era invece l’attuazione in concreto di principi non giuridici, ma abbondantemente sedimentati nella cultura patriarcale.

Quanto le pesava la solitudine in camera di consiglio, non si infliggono 30 anni a cuor leggero...

La solitudine per un giudice è costosa e pesante, ma se la conforti con uno studio il più possibile accurato del fascicolo ti dà la possibilità di approfondire il caso il modo netto, non mediato dalla partecipazione al giudizio di altri. E ti mette di fronte ad una piena assunzione di responsabilità.  

A mia figlia, che a 10 anni ha il poster di Falcone e Borsellino sopra il letto e vorrebbe fare il magistrato, cosa direbbe?

Direi che la magistratura è una strada come un’altra, puo condurre in direzioni diverse: alla neghittosità e alla pigrizia o a qualcosa di interessante e impegnativo. A 70 si impara che non è la vetta che conta, ma il percorso che si fa per arrivare in cima.

Ha mai pensato di fare altro nella vita?

Mi proposero di rimanere in università, ma non mi andava per un problema di libertà e affrancamento. L’università è l’ultimo esempio di Medioevo che c’è in Italia, insieme alla Chiesa naturalmente, che però è più innovativa.

Cosa farà da pensionato?

Mi dedicherò ancor più alla Sat e al Filmfestival.

A proposito di Sat, cosa pensa della  Translagorai?

I Lagorai sono stati i monti che più ho frequentato in Trentino, in estate e soprattutto in inverno, sin dal 1978. Che tutto questo debba rimanere patrimonio di pochissimi mi sembra improbabile. Credo che il punto di equilibrio trovato dalla Sat rappresenti la migliore soluzione possibile. I meccanismi vanno governati. Chi pretende di esorcizzarli gridando all’attentato con il suo no assoluto si pone nella condizione di non poter poi influenzare gli avvenimenti.

Lei chiude la carriera a Rovereto: ha ancora senso mantenere quel Tribunale?

In un’ottica di razionalizzazione totale non avrebbe senso, ma è  assolutamente indispensabile perché il tribunale di Trento non è in grado di far proprie le competenze di Rovereto, tribunale che funziona bene con il record nazionale per i fallimenti e la giustizia civile.

Dopo 42 anni e un decennio passato ai vertici dell’Anm lei chiude la carriera da giudice ordinario, da soldato in prima linea e non comodamente nelle retrovie. Perché?

Non ho mai avuto ruoli di potere in senso proprio. Nei periodi in cui ho rivestito ruoli direttivi ho sentito il peso della responsabilità, ma ho anche avvertito la tentazione del prestigio e del privilegio, soprattutto quando ho fatto politica nazionale per l’Anm. La partecipazione a ruoli di potere, anche se non corrompe, può turbare certi percorsi, soprattutto quando il lavoro che fai ti vieta di avere una forte ideologia a sostegno. Non sono affatto sicuro che se fossi andato al Csm avrei fatto meglio di quelli che ci sono andati davvero. Il mio rifiuto di potere è stato come scavarmi una nicchia in cui rimanere libero e indipendente.

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