Lavori domestici per 30 anni Agli eredi del cognato manda conto di 300mila euro

di Sergio Damiani

Per 30 anni ha accudito il cognato facendo le pulizie a casa sua, talvolta anche cucinando e lavando la biancheria. Dopo la sua morte la donna - oggi 79enne - all’erede del defunto cognato ha presentato il «conto»: oltre 300 mila euro per quei trent’anni di attività che secondo la donna e i suoi legali erano niente di meno che un rapporto di lavoro domestico. E come tale andava pagato, con tutte le prestazioni di legge conseguenti, comprensive di regolarizzazione della posizione contributiva e interessi. Ma l’erede, difeso dall’avvocato Francesco Romano, ha evitato quello che per lui rischiava di essere un pesante «salasso» patrimoniale.

Nei giorni scorsi la Cassazione ha messo la parola fine in calce ad un contenzioso civile durato quasi un decennio: le richieste della donna sono state respinte. Secondo i giudici - che hanno accolto gli argomenti dell’avvocato Romano - la donna ha sì svolto attività domestica in favore del cognato, ma non aveva i caratteri del lavoro dipendente. Tutto ciò - scrisse la Corte d’appello di Trento - si inseriva in un ménage familiare in cui i fratelli (omissis) si occupavano insieme del lavoro dell’azienda agricola e la ricorrente delle faccende di casa».
La causa, avviata dopo la morte del cognato, venne promossa in un contesto di contrapposizione. La donna, forse delusa perché non era stato riconosciuto il suo decennale contributo domestico in favore del defunto cognato - durato dal 1973 fino al 2003 - aveva chiesto che venisse riconosciuto il rapporto di lavoro subordinato tra affini.

Il cognato, anche in seguito a qualche problema di salute, era andato ad abitare nello stesso immobile dove viveva il fratello. La moglie di quest’ultimo, attuale ricorrente, si era fatta carico delle faccende domestiche in favore del cognato che lavorava per tutto il giorno in campagna. Dopo la morte del contadino la donna aveva presentato «il conto» all’erede: 30 anni di contributi e stipendi per un totale di oltre 300 mila euro.

In tutti i tre gradi di giudizio i giudici hanno però respinto la richiesta. E non perché la donna non avesse profuso con generosità tempo ed energie per aiutare il cognato nelle faccende di casa, ma perché quell’impegno è stato considerato di natura familiare.

La Corte d’appello ha sottolineato che «tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa(cioè per motivo di affetto e benevolenza, ndr); con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l’assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l’onerosità». Elelementi -  quali la retribuzione, il vincolo di subordinazione, un pur elastico orario di lavoro -  che la ricorrente non è riuscita a dimostrare in giudizio.

Anche il suo ultimo ricorso in Cassazione è stato dunque respinto con condanna a versare 4.200 euro di spese per il giudizio di legittimità. I lavori domestici svolti con sacrificio per 30 anni erano di fatto «volontari» come contributo alla vita della famiglia allargata al cognato, non erano prestazioni a carattere subordinato.

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