La Provincia premia Valerio Costa Visionario della lotta alla droga

di Daniele Benfanti

«Da delinquente a malato che necessita di un processo terapeutico completo, interprofessionale». Il cambio di paradigma e di approccio nei confronti del tossicodipendente non è stato facile. Valerio Costa, nato a Scurelle, in Valsugana, nel 1937, ex direttore del Sert di Trento («dagli inizi, quando eravamo in quattro, negli anni Ottanta, tra i quali l’ex sindaco Alberto Pacher, e fino al 1997) e per quarant’anni (fino al 2017) direttore della Comunità terapeutica di Camparta, sulla collina sopra Gazzadina e Vigo Meano, sulle pendici del Calisio, lo ricorda bene lo stigma sociale nei confronti dei primi dipendenti da droghe e sostanze stupefacenti.

«Eravamo dopo il Sessantotto. È stata la legge 685 del 1975 a cambiare la prospettiva e a istituire i centri medici e di assistenza sociale. Prima, il tossicodipendente era considerato un criminale. Per i medici che li avevano in cura c’era l’obbligo di denunciarli. Pena responsabilità penali. Io stesso, che li aiutavo in San Pietro a Trento, ho rischiato la denuncia per favoreggiamento». Valerio Costa, sociologo con specializzazione in psicologia e psicoterapeuta, ieri ha ricevuto l’Aquila di San Venceslao, la massima benemerenza della Provincia, per la sua attività quasi cinquantennale a favore del recupero dalle tossicodipendenze (e dai disturbi alimentari negli ultimi diciott’anni).

Una cerimonia sobria, tra le pareti di quel Centro antidroga di Camparta, tra vigneti, orti e stalle, che un manipolo di «visionari», per l’epoca, prima di Vincenzo Muccioli e di altre esperienze più note, contribuì a riempire di umanità, contro la piaga dilagante della droga.

«La droga a Trento c’era già negli anni Sessanta – ricorda Costa – ma era marijuana e hashish. Sostanze nocive, beninteso, ma che non mettevano a rischio la vita. Verso il 1973-’74 arrivò l’eroina, già diffusa in Germania qualche anno prima. L’eroina creava forte dipendenza fisica, innescava dinamiche criminali per il suo costo elevato, portava alla morte».

Nel 1974 nacque l’Associazione Centro antidroga: due stanze all’oratorio di San Pietro, a Trento. Costa era stato prete, non ha mai scelto il laicato. Aveva insegnato religione all’Iti Buonarroti. Conosceva i giovani e i loro problemi. «Nel 1975 ci occupavamo già di 130 tossicodipendenti. Soprattutto di Trento e Rovereto». Avevano tutti tra i 18 e i 24 anni: «C’era solo un trentenne, decisamente fuori quota» ricorda Costa.

Ma com’è cambiato il mondo delle tossicodipendenze, in questi quarant’anni abbondanti? «Allora c’era quasi una comunità, con forte senso di appartenenza. Si trovavano insieme in Piazza Duomo. La droga era vista come una risposta rabbiosa al conformismo, elemento alternativo, di contestazione. Alla fine degli anni Ottanta la droga diventa interstiziale. Si annida nelle solitudini, diventa frutto di disagio personale, di incapacità di stare al mondo». A Camparta, su un terreno che era stato del podestà Oss Mazzurana e poi dei Cappuccini, è cresciuta la comunità che oggi propone percorsi terapeutici, psicanalitici, attività agricole.

«Per anni si è detto e scritto che la droga è un tunnel senza uscita. L’esperienza di Camparta ci insegna il contrario. Servono vari professionisti, una diagnosi corretta: la sola buona volontà di operatori improvvisati può fare grandi danni. La droga si elimina lavorando sui problemi a monte della singola persona». Puntando soprattutto sulla psicoterapia e sull’attività agricola: «Il rapporto con la terra è fondamentale. La terra ha una dimensione cosmica. I suoi prodotti ci ricordano il ciclo della vita: nascita, crescita, morte. La fatica della coltivazione dà un senso di dignità. A Camparta facciamo autoconsumo. Mai pensato alla vendita».

Ieri intorno a lui si sono stretti tanti ragazzi che dalla schiavitù della droga sono usciti con successo e gratitudine verso la vita. Valerio Costa ha un solo rimpianto: «Molti di loro, purtroppo non ci sono. L’Aids a metà anni Ottanta se li è portati via».

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