A casa in malattia, ma lavorava al bar

È stata condannata in appello per truffa e falso idoelogico una trentenne sorpresa a lavorare dietro il bancone del bar all’interno del carcere, preso in gestione, mentre per il negozio dove la giovane lavorava come commessa figurava in malattia. I fatti contestati si collocano tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. In primo grado la lavoratrice era stata assolta, sentenza che però è stata riformata dalla Corte d’appello di Trento che ha condannato l’imputata ad 1 anno e 4 mesi di reclusione. La donna dovrà anche risarcire la parte civile, cioè la società che gestisce il negozio di abbigliamento dove all’epoca lavorava, per gli stipendi indebitamente ricevuti: il danno dovrà essere quantificato in separata sede, ad esso si somma la condanna alle spese legali per un totale, nei due gradi di giudizio, di 4mila euro. 

I giudici d’appello hanno dato una lettura degli atti processuali - le motivazioni della sentenza sono state depositate a fine gennaio - molto diversa rispetto al Tribunale. Secondo la Corte, la presenza dell’imputata dietro al bancone del bar non può dirsi saltuaria: «Il registro annota la presenza intramuraria di (omissis), quasi quotidiana, in orari insoliti e per durate considerevoli, anche di 8 ore, del tutto compatibili con ordinari turni di servizio al bar». Secondo i giudici una presenza così assidua in carcere non può trovare una spiegazione solo con i legame affettivo con un dipendente dell’amministrazione. 

Inoltre «non è certo possibile proporre una differenza qualitativa tra il lavoro di barista e quello di commessa, al punto da ritenere che il primo fosse compatibile con la certificazione sanitaria e il secondo no». Anzi, secondo la corte la malattia sarebbe stata enfatizzata dalla dipendente: la sentenza esclude «che lo stato di ansia riferito da (omissis) è stato da lei quantomeno artatamente enfatizzato allo scopo di ottenere dal medico personale una serie di certificati che attestassero falsamente un’incapacità lavorativa». 

La condanna ad 1 anno e 4 mesi di reclusione, si precisa in sentenza, tiene conto «della non trascurabile gravità delle condotte connotate da scaltra callidità e sicumera di impunità», ma anche dall’incensuratezza dell’imputata a cui sono stati concessi i benefici della non menzione e della sospensione condizionale della pena.

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