Kyenge diffamata, condanna definitiva a Serafini

Quella frase - «Torni nella giunga» - scritta su Facebook e rivolta all'ex ministro Cecile Kyenge, anche secondo la Cassazione integra il reato di diffamazione aggravata dalla finalità della discriminazione razziale. La suprema Corte - con sentenza del 2 novembre 2017, con motivazioni depositate però nei giorni scorsi - ha dunque respinto il ricorso dell'autista di Trentino Trasporti (che per questa vicenda venne licenziato, e poi reintegrato dopo aver fatto ricorso al giudice del lavoro). A quasi 5 anni da quando la frase «galeotta» fu postata da Serafini sul suo profilo Facebook, la sentenza di condanna (una multa di 2.500 euro) passa dunque in giudicato. 

Secondo i giudici «non appare revocabile in dubbio che l'espressione di cui si discute, lungi dal rappresentare una radicale critica all'azione politica della Kyenge, è trasmodata in un vero e proprio attacco inutilmente umiliante nei confronti di quest'ultima ed inutilmente denigratorio della sua dignità, intesa come percezione, innanzitutto, della propria dimensione umana, e della sua reputazione. Non di una censura sugli obiettivi politico-amministrativi perseguiti dalla persona offesa si è trattato, dunque, ma di un attacco personale, che, facendo leva sulle origini africane della Kyenge, le ha attribuito caratteri propri degli esseri che vivono nella giungla». 

Secondo la Suprema Corte la diffamazione è aggravata dalla finalità della discriminazione razziale: «Quel che rileva è l'evidente e gratuito giudizio di disvalore espresso dal Serafini, fondato sull'appartenenza della Kyenge alla razza degli africani di pelle nera, che, secondo l'imputato, ha nella giungla e non nella società civilizzata, il suo habitat naturale, per ragioni storiche ovvero perché assimilabile agli animali, come le scimmie, che vi vivono». L'aggravante è configurabile «per il solo fatto dell'impiego di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, vale a dire quando la condotta posta in essere si manifesta come consapevole esteriorizzazione di un sentimento connotato dalla volontà di escludere condizioni di parità per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza, nazionalità o religione».

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