In cammino sul Doss Trento con i profughi Le voci delle persone in fuga dall'orrore

di Renzo Maria Grosselli

Uomini. Non rifugiati. Uomini. Non profughi. Uomini. Non migranti, non neri, non arabi, non marocchini né del Niger della Siria, del Bangladesh. Uomini, con madri padri, sorelle e fratelli, figli a volte. Uomini che incontriamo, nella Giornata mondiale del rifugiato in cui la Provincia, con Cinformi e altre entità del volontariato, ha organizzato ieri, nel pomeriggio, una passeggiata dalla stazione ferroviaria alla cima del Doss Trento. Perché molti trentini, pare, non gradiscono troppo l'arrivo di questi uomini. Non uno sproposito sinora.

L'accoglienza straordinaria di persone soccorse in mare e richiedenti la protezione internazionale (inviateci dal ministero degli interni tramite protocollo con Provincia e Commissariato del governo) dal 22 marzo 2014 ha riguardato 1.134 persone. Attenzione però, attualmente in Trentino di queste ce ne sono solo 520. Diciamo due alberghi pieni? In una terra di 550.000 persone. Per ora (ma continuano ad arrivare sulle coste italiane), la quota prevista dagli accordi è di 561 richiedenti asilo.

Quelli che abbiamo accolto sono maschi, età media 25 anni, provengono dalla Libia e sono nati in Nigeria, Mali, Gambia, Pakistan, Bangladesh. Hanno lasciato la Libia a causa della guerra civile. In verità, si sono trovati alla merce di qualsiasi violenza. Si sono messi in mare e sono stati soccorsi dalle navi italiane di Mare Nostrum (poi dell'operazione europea Triton). Lo Stato passa al Trentino 30 euro giornalieri per ognuno di loro e l'organizzazione messa in piedi da Provincia e volontariato ne spende 27 e 50 centesimo per ognuno. Grandi costi?

Un'invasione? Non per ora. Uomini, non oggetti, storie, pelle. Problemi e drammi, sogni e ricordi. Felicità. Uomini. Siamo pochi alla stazione. Partiamo in 24. A grossa pesa, 8 di loro, 8 volontari e 8 giornalisti. Nessuno morde, abbaia o sputa per terra. Tra i giornalisti, vogliamo dire. Il giorno è bello. In cammino. Parliamo con Mamadou del Gambia, con Vasimbari, Hussein, Abdul del Pakistan, con Udjan del Bangladesh. E con Renata di Palma, libera cittadina trentina.

«Sono una simpatizzante del Centro Astalli, dei gesuiti, che offre servizi per i rifugiati. Mio figlio Giacomo sta al Centro Astalli di Catania, lavorano a ritmi incredibili, fanno quello che possono, hanno scarsissimi mezzi ma fanno il possibile per l'accoglienza». Lei cosa ne pensa? «È un problema mondiale, non italiano, siciliano o trentino. Ma bisogna farci fronte». Già. Uomini, non numeri. «Non esiste nero o bianco, difficile dare giudizi. Io so solo che la gente arriva e una ragione c'è quindi».

Nel cammino un brandello di storia tra le altre. Ahsan Ullah è afghano e dice di avere 17 anni (ne dimostra 23). «Nella mia terra ero pastore di pecore, capre, mucche. Sui monti. Sono arrivato qui il 20 febbraio. Ho viaggiato un anno e quattro mesi, quasi tutto a piedi: poco cibo, poca solidarietà, pane, biscotti, acqua. Volevo l'Italia. Ho attraversato Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria. Ho lavorato tanto in Afghanistan, non avevo nessuno, i genitori sono morti. Qui sto studiando e vorrei rimanere. Perché sono andato via? Molta violenza e poi in una giornata di lavoro duro, in montagna con le pecore, mangiavo una scarsa colazione e qualcosa di più, ma poco, a cena».

Occhi scuri, un bel ragazzo. Uomini, non rifugiati, non profughi, non migranti, non musulmani.

«So lavorare, vorrei lavorare. Sto studiando, posso fare tanto. Lo sai?». Lo so Ahsan. Ma ci sono problemi. Vedrai, andrà bene comunque.

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