In psichiatria a Trento strangolò il compagno di stanza

In preda alle voci che gli ordinavano di uccidere, strangolò il suo compagno di stanza diventando un assassino a soli 19 anni. È la storia di un giovane ricoverato in Psichiatria al Santa Chiara di Trento che - vittima di allucinazioni, che lui interpretava come una manifestazione del diavolo - nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile 2014 uccise un altro paziente del reparto. La vittima era Roberto Dalmonego, all'epoca 46enne residente ad Andalo, il quale non aveva fatto nulla di male.

Quella notte ebbe solo la sfortuna di dormire accanto al ragazzo che sentiva le voci. Nessuno, neppure i sanitari, poteva immaginare quello che sarebbe accaduto: il giovane, ora imputato di omicidio volontario, in passato non aveva mai dato segni di aggressività. Anzi, la malattia mentale aveva appena fatto capolino e per questo il ragazzo, di sua volontà, si era sottoposto alle cure e al ricovero in ospedale.

La prossima settimana la vicenda approderà in udienza preliminare davanti al giudice Carlo Ancona. Tutto fa pensare che il 19enne, difeso dall'avvocato Monica Baggia, verrà prosciolto perché non imputabile in quanto totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Resta da valutare la sua pericolosità sociale e la collocazione più idonea. In questo momento il ragazzo si trova in libertà vigilata presso una comunità terapeutica della provincia dove, è ragionevole pensare, rimarrà anche nell'immediato futuro. Per ora la famiglia della vittima non si è costituita parte civile nel procedimento penale, preferendo forse percorrere la strada del risarcimento del danno da richiedere all'Azienda sanitaria in sede civile.

Nella notte tra il 31 e l'uno aprile lo stesso giovane paziente urlò per chiamare gli infermieri: «L'ho ucciso, l'ho ucciso...», diceva indicando il suo compagno di stanza riverso a terra. Il personale sanitario tentò di soccorrere Roberto Dalmonego, che morì nonostante tutti i tentativi di rianimazione.
Il compagno di stanza confessò subito l'omicidio. Disse di aver agito in preda alle voci: «Mi dicevano che se non l'avessi ucciso sarei stato dannato per l'eternità», spiegò. E aggiunse: «Quella voce mi diceva: fallo! fallo! fallo!».

Medici e procura, investita del caso in seguito al decesso, avevano dei dubbi. Era stato davvero il giovane ad uccidere il compagno? Oppure la sua confessione era frutto del delirio e l'uomo era stato stroncato da un infarto, visto che i farmaci possono provocare degli scompensi cardiaci?
La risposta arrivò dall'autopsia. Il dottor Paolo Fais, dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Verona, concluse che il decesso era avvenuto per strangolamento. L'imputato avrebbe stretto le mani al collo del compagno di stanza, che forse oppose una breve e disperata resistenza, fino a farlo stramazzare al suolo morente.

Una volta chiarita la dinamica, il pm Pasquale Profiti, oltre a richiedere una misura cautelare con la collocazione del giovane in comunità terapeutica, ordinò una consulenza psichiatrica. Come era facile prevedere, lo il dottor Eraldo Mancioppi ha stabilito che il giovane non era in grado di intendere e di volere quando, in preda ad allucinazioni a sfondo mistico, strangolò il compagno di stanza. L'esito del processo appare dunque segnato: non ci sarà alcuna condanna.

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