Dalpalù: «Ecco le mie idee per la cooperazione trentina»

Più voce ai soci e alle periferie; un’evoluzione del ruolo stesso della Federazione, cui l’abito di sindacato di categoria va stretto. Formazione e nuove generazioni. Ecco i cardini di quello che diventerà il programma di Renato Dalpalù, candidato alla successione di Diego Schelfi, per la cooperazione dei prossimi anni

di Renzo Moser

Più voce ai soci e alle periferie, immaginando «coordinamenti territoriali» che raccolgano tutte le anime della cooperazione, senza steccati di settore; una rivisitazione della governance della Federazione, affiancando dei comitati al consiglio di amministrazione; un’evoluzione del ruolo stesso della Federazione, cui l’abito di sindacato di categoria va stretto; l’apertura alla riforma del credito, senza paura del cambiamento, ma con l’idea ben chiara che «su questo terreno ci si gioca il futuro». Formazione e nuove generazioni. Ecco i cardini di quello che diventerà il programma di Renato Dalpalù, candidato alla successione di Diego Schelfi, per la cooperazione dei prossimi anni. Con un’assicurazione a chi paventa la continuità con il recente passato: «Non sono un clone».

Renato Dalpalù, lei arriverà all’assemblea dei soci del 12 giugno, che dovrà scegliere il successore di Diego Schelfi, nella veste di candidato ufficiale indicato dal cda della Federazione. Provi a immaginare come sarà la mattina del 13 giugno: i soci l’hanno eletta presidente. Quel giorno inizia il primo mandato di Dalpalù o il quinto di Schelfi?
Se quello dovesse essere il volere dell’assemblea, beh, io non sono il clone di nessuno. La verità è che sono i tempi a imporre la discontinuità. Attenzione, però, non si butta via il bambino con l’acqua sporca.

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Tutto sta a capire cosa dove stia il bambino, da preservare, e dove l’acqua sporca, da buttare.
Se sarò io il presidente, su alcune cose non ci sarà alcuna discontinuità. Come sul principio di avere un sistema operativo unito, senza tante centrali. Questo è un valore che dobbiamo tenerci stretto, e che da fuori tutti guardano con grande attenzione. In Italia ci sono tanti soggetti distinti. Anche a Bolzano, dove troviamo ben quattro centrali della cooperazione; a Trento, invece, c’è un unico organismo, che si fa carico della rappresentanza di tutto il movimento. Questo soggetto è la Federazione, ed è una cosa estremamente positiva: non prevalgono le istanze di un singolo settore, come il credito o il consumo,  ma c’è la Federazione che fa una sintesi nell’interesse generale. Su questo punto, non ci sarà discontinuità, su molte altre cose sì. O meglio, cambiamento.

Facciamo qualche esempio. A cominciare dalla governance della Federazione, che spesso si attira molte critiche: un apparato mastodontico, un ministero che nasconde sacche di inefficienza, di privilegio per i «professionisti» della cooperazione.
Sì, su questo fronte dobbiamo pensare a dei cambiamenti. Partendo dall’alto: oggi abbiamo un cda lungo, molto lungo (21 consiglieri più il presidente, ndr), che è chiamato a occuparsi di tutto. Il rischio concreto è che, affrontando uno specifico tema, solo i consiglieri di quel settore siano «padroni» dell’argomento. Credo invece che si possa pensare a una sorta di comitati, delle strutture a latere in grado di occuparsi di specifici temi, così da spingere di più sulla trasversalità. Questo ci porta a ripensare il ruolo stesso della Federazione.

Non pochi critici rimproverano alla Federazione di aver smarrito la sua funzione, di aver perso la propria identità e anche parte della propria credibilità. È così?
La Federazione è oggi, a un tempo, sindacato, vigilanza e servizi. La funzione di vigilanza non si tocca, ovviamente: anzi, dovremo lavorare per rafforzarla ulteriormente. Diversa la questione della produzione di servizi per gli associati. Credo che sia opportuno passare dall’offerta tradizionale di servizi a un’offerta più particolare e qualificata, per esempio nell’ambito della formazione, a tutto beneficio del movimento di base. Poi c’è la questione più delicata, quella della Federazione come sindacato. Io qui vedo la possibilità di una evoluzione importante.

Ce la spieghi in dettaglio.
Vedo una Federazione che si stacca dal ruolo tradizionale di sindacato degli associati, per diventare sempre di più un partner importante di altri soggetti, a partire dalle amministrazioni pubbliche, per lo sviluppo della comunità.

Un’istituzione para-pubblica? È un terreno minatissimo…
No, non è questo che ho in mente. Io credo che sia doveroso rapportarsi con regolarità con le amministrazioni pubbliche, ma non per chiedere aiuti, scorciatoie o altro. Semplicemente per discutere insieme di quello che si può fare per lo sviluppo comune. Non per chiedere, dunque, ma eventualmente per dare. Pensiamo a quanti investimenti il Trentino ha sostenuto per le infrastrutture nelle periferie. Dietro a tutto ciò c’è un’idea di territorio e di sviluppo ben chiara. Allora ragioniamo insieme su che cosa possiamo fare per valorizzare questa idea.

Il rischio, però, è quello dell’ingerenza indebita. Pensi, ad esempio, alle tensioni che ci sono state intorno ai piani di espansione in periferia di alcuni soggetti della grande distribuzione trentina, come Poli. Non è che in realtà volete ottenere campo libero, ammorbidendo la concorrenza?
Non credo possa essere questo il ragionamento. Nelle valli, in periferia, ci sono molti negozi delle Famiglie cooperative. Si parla molto della sostenibilità di queste realtà. Beh, io dico che rinunciare a questi negozi sarebbe una perdita. Non solo sociale, per così dire, ma anche economica. Su questo punto la politica deve avere una visone complessiva. Noi le nostre idee ce la abbiamo, ma deve essere la politica, infine, a decidere.

Decidere di lasciarvi campo libero?
No. Costruire grandi centri attrattivi della distribuzione è legittimo, ci mancherebbe. Ma non si può pensare che poi tutto il resto rimanga uguale a prima. Non funziona. Oggi ci troviamo in questa situazione: stiamo spingendo moltissimo sull’efficienza microeconomica dell’azienda, ma così facendo perdiamo su altri fronti. Senza servizi i paesi si spopolano, perdono attrattività. Pregiudichiamo anche un rilevante patrimonio edilizio. I fattori in campo sono molteplici.

Ma la risposta può essere una sorta di protezionismo?
No. E non possiamo permetterci di avere una distribuzione «antica». Però dobbiamo cercare un punto di equilibrio. Lo stesso vale per il credito: se togliamo la leva del risparmio al territorio, dove andiamo a finire? Dove verranno indirizzate le risorse raccolte? Dove rendono di più agli azionisti o dove l’istituto di credito le ha raccolte? Non sono questioni banali, qui ci giochiamo il nostro futuro.

Torniamo alla Federazione. Il suo nome per la presidenza è stato proposto da un cda di cui le stesso fa parte. Lei è anche, fra le altre cose, presidente del Sait e vicepresidente della Federazione stessa. Si sente il candidato di un circolo ristretto, privo dell’investitura della base?
Ah, quest’ultima cosa è certa. L’investitura della base potrò dire di averla, eventualmente, solo dopo l’assemblea che voterà il presidente. Cercherò di guadagnarmela in questi due mesi.

Come risponde a chi sostiene che la sua appare come una sorta di cooptazione più che una scelta frutto di un percorso democratico?
Guardi, il metodo seguito è noto. Ci sono stati undici incontri territoriali, ai quali io, peraltro, non ho partecipato. Da questi incontri è emersa un’istanza, affinché sia il cda a fare una propria proposta. In questa logica il consiglio ha fatto il mio nome. Non so se me lo merito, ma è andata così.

Crede che questo possa penalizzare la sua corsa alla presidenza?
No, credo anzi che sarà un plus. Di sicuro non basterà. In ogni caso, avere l’apprezzamento di persone con cui si lavora ogni giorno ti dà una spinta morale forte. Se poi è una spinta anche di altro genere, non lo so… (ride).

Le critiche investono, più che il suo nome, il metodo seguito per arrivare questa designazione, poco aperto al confronto con la base.
Premesso che fare una proposta non è decidere, perché a decidere sarà l’assemblea, io credo che ci sia un principio di responsabilità. Chi sta in cima deve fare una proposta, assumendosene la responsabilità e i rischi. Dire: diteci voi cosa fare, equivarrebbe a sfuggire questa responsabilità. E poi, lo ribadisco, qua non c’è nessun cerchio magico. Alla fine si passa per il voto dell’assemblea dei soci. Che è un voto, lo ricordo, segreto.

Qui si tocca un tasto dolente. Negli anni, il ruolo dei soci è andato sbiadendo. Abbiamo visto manager onnipotenti agire nella più completa discrezionalità, con il socio a ratificare decisioni già prese. Ora, nessuno nega le responsabilità dei soci stessi, che troppo spesso sono stati zitti. Ma resta il dato di fatto dell’abisso che spesso li divide dalla gestione diretta delle cooperative.
Sono d’accordo sul fatto che l’evoluzione di questi anni ha portato alla perdita progressiva del legame tra socio e cooperativa. È un tema fondamentale, perché ogni cooperativa ha bisogno di tre cose essenziali: un management tecnico forte e preparato, un consiglio forte, una base sociale attenta. L’evoluzione che ha portato all’indebolimento del ruolo e della figura stessa del socio è un po’ figlia del nostro tempo. Troppo spesso è passata l’idea che dobbiamo concentrarci al massimo sul quanto succede nel nostro orticello e disinteressarci di quanto succede fuori. Questo è il vulnus vero. Ma non è un problema solo nostro: succede in politica, nei partiti. L’investimento in formazione, da questo punto di vista, può darci una mano: per aprirsi al mondo, per capire che accanto al «fare» ci deve essere anche il «pensare». E su questo ho una mia idea precisa.

Ce la illustri.
Il territorio. Il territorio è un valore. E io vedo una cooperazione che si organizza anche a livello territoriale. Perché non pensare a un coordinamento territoriale, che faccia incontrare i soci delle diverse componenti della cooperazione? Si diventa intersettoriali, e non è una banalità, mi creda; non si disperdono risorse per la formazione, si crea una sorta di scuola per la nuova classe dirigente, si spinge su quel processo che ho ricordato prima, e che punta a fare della Federazione meno un sindacato di associati e più un partner per l’interesse comune.

Scendiamo nel concreto. Non crede che la Federazione abbia mancato nel ruolo di supplenza in alcune situazioni critiche che, evidentemente, erano sfuggite di mano tanto ai soci come ai manager? Il caso La Vis è eclatante.
Attenzione, perché qui in ballo c’è anche l’autonomia delle singole realtà. E c’è anche l’autonomia di sbagliare. Qualcuno pensa forse che l’antidoto agli errori sa togliere autonomia? Punto secondo: le crisi d’impresa sono dappertutto, tanto più in questi anni. Una cooperativa non può permettersi di andare in crisi? E la risposta può essere il dirigismo centralizzato? Io vedo una incongruenza in tutto questo. Rispettare l’autonomia delle singole realtà comporta certamente dei rischi, ma la risposta non può essere il centralismo spinto.

Non vede proprio nulla da rimproverare al sistema nella gestione del caso La Vis?
La Vis è un caso specifico, che coinvolge un migliaio di soci e circa 200 collaboratori. Ho troppo rispetto per tutti loro per permettermi di dare giudizi senza avere in mano tutti gli elementi necessari. Se poi mi chiede se rifarei tutto quanto è stato fatto, beh, rispondo di no, ovviamente. Ma col senno di poi è molto facile. Io credo che tra le libertà di una singola cooperativa ci sia anche quella di sbagliare. Come con i figli: in fondo, le imprese non sono molto diverse dalle persone…

La Federazione ha assunto negli anni un peso e una dimensione enormi, così come l’intero sistema dei consorzi. Spesso gli apparati e i consorzi vengono accusati di autoreferenzialità. Non siete cresciuti troppo?
Abbiamo una quarantina di casse rurali, una settantina di famiglie cooperative, poi caseifici, cantine, magazzini frutta, coop lavoro. Per le realtà che si interfacciano con l’esterno possiamo pensare a un’organizzazione dove ciascuno si arrangia e fa a modo suo? No, io credo di no. Abbiamo una rete di imprese, dove uno degli snodi centrali è costituito dal consorzio. Sono organizzazioni complesse, cantieri aperti. La domanda che ci dobbiamo porre è se sono sufficientemente efficienti. E l’efficienza non è un qualcosa che si recupera solo all’interno del consorzio, ma anche nel rapporto con i consorziati.

A questa domanda come risponde?
Non c’è impresa che non possa migliorare sotto il profilo dell’efficienza. Tutte possono farlo. Ma prendiamo il settore del consumo. Nel consorzio abbiamo 22 cooperative che fanno il 72% del fatturato del comparto, e 26 cooperative che fanno l’8% scarso. A livello di sistema questo crea un certo appesantimento. Basta pensare alla catena decisionale… Altro che élite che decide. Poi c’è un’altra cosa: vede, ciascun cooperativa nomina il proprio rappresentante nel consorzio. Ecco, non può essere che appena varcano la soglia del consorzio, quei rappresentanti diventino degli incapaci. Al Sait abbiamo un consiglio di 18 persone: 17 di questi sono presidenti di cooperativa. Nominati dai soci. Comunque, è un bene che anche sulle strutture ci sia questa tensione a migliorare. Ma tutto ciò non passa per slogan. Non si può dire che questi problemi si risolvono così, tagliando del 10% il personale.

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Non ritiene necessario uno snellimento degli apparati?
Se lo snellimento è mandare a casa del personale, io credo che questo debba essere fatto dopo un’analisi molto attenta. E questa analisi attenta un candidato non la può fare se non è entrato in tutti i dettagli, in maniera estremamente approfondita.

Schelfi, in tutti questi anni, è stato l’uomo della mediazione e del compromesso, a volte a tutti i costi. Questo ha portato la Federazione a rinviare il momento in cui alcuni nodi dovranno essere affrontati. Su questo terreno si sente di dire che ci sarà una discontinuità con la presidenza uscente?
La mediazione, ne sono convinto, è un valore. Mediare tra due posizioni legittime è doveroso. Qualsiasi organizzazione di basa su processi di mediazione, e anche di compromesso. Perché se nessuno è disposto a rinunciare a un po’ della «sua» ragione, non si va lontano. Poi certo, arrivati ad alcuni snodi, le decisioni vanno prese. Non so se in questo sono diverso da Schelfi. Diciamo che il presidente ha sempre impersonato, per certi aspetti, questa cultura  della mediazione. Ma bisogna anche tener conto di un’altra cosa: nessuno è depositario della verità. Ecco perché io credo molto nelle squadre, in un team.

Veniamo al credito. Sul tavolo ci sono diverse questioni aperte, a cominciare dalle spinte per una riforma del settore.
Sono molto più che spinte. L’Italia è un paese che ha bisogno di cambiare. Anche per questo non possiamo vedere in ogni riforma una minaccia. Non pensiamo pensare che da noi vada tutto bene e che ogni tentativo di cambiare sia un’ingerenza.

Questo sul piano legislativo. Sul piano più pratico, c’è un problema di patrimonializzazione non trascurabile, non crede? E anche di gestione. Lo dicono i bilanci.
Vogliamo guardare i risultati delle grandi banche nazionali? Noi quest’anno siamo  in una situazione in cui 13 o 14 casse chiudono in perdita per rettifiche. Ma negli anni scorsi, a partire dal 2008, abbiamo sostenuto lo sforzo maggiore di erogazione del credito sul territorio. Ora, con una crisi che si è prolungata nel tempo, arrivano al pettine alcuni nodi. Ma è l’intero settore bancario a soffrire. Ma a noi si perdona poco... Ricordo di aver letto un giorno un articolo su un istituto bancario in cui si parlava di “utile negativo”! Insomma, alle casse chiediamo di non praticare il credit crunch, di dare risorse alle imprese, però pretendiamo che le cose non possano andar male.

L’impressione, però, è che a volte la politica dei crediti risponda a logiche non strettamente economiche ma che venga influenzata da altri fattori.
Noi siamo chiamati a essere banche del territorio. Questo fa sì che, nel valutare l’opportunità di erogare credito, entrino in gioco anche altre valutazioni. Se a chiedermi credito è un azienda del territorio con 50 dipendenti, 35 dei quali sono clienti e hanno il mutuo casa della cassa, mi faccio carico anche di questo. Se poi le cose vanno male, mi viene rimproverato di non aver agito secondo criteri strettamente economici. Beh, delle due l’una: o ragiono solo basandomi sul conto economico o prendo in considerazione anche altri aspetti. Con i rischi che ne conseguono. Se poi a guidare lo scelte non sono i criteri economici né i ragionamenti di contesto generale, ma le conoscenze, allora quello è un errore. Ma ho grande fiducia nell’onestà della struttura dei nostri amministratori.

Il rapporto con la Provincia. La Federazione viene da una presidenza che, per un lungo tratto, ha coinciso con un’altra presidenza, quella della Provincia. Il binomio Schelfi-Dellai è sempre stato molto stretto. Non a caso, per un breve periodo, l’uno sembrava poter essere il successore naturale dell’altro. Anche questo aspetto è stato molto criticato all’interno del vostro mondo. Come immagina il rapporto con la Provincia?
Io immagino un rapporto con le istituzioni forte, riconoscendo alle istituzioni e alla politica il primato. E trovo logico che la politica guardi al mondo della cooperazione. I rapporti devono essere stretti, nella consapevolezza e nel rispetto dei rispettivi ruoli: abbiamo, è vero, obiettivi comuni. Ma non siamo, e non saremo, una Provincia 2. Semplicemente concorriamo per il bene comune. Lo fa anche l’impresa privata, certamente. Noi lo facciamo con un passaggio in più: gli utili non sono a vantaggio di un azionista, ma di un patto intergenerazionale. Non penso che abbiamo un primato morale, per questo, ma di sicuro questo ci assicura la legittimità per confrontarci con la politica e le istituzioni come partner per lo sviluppo del nostro territorio e delle nostre comunità.

Non avete preteso troppo dalla Provincia. In termini di contributi, per esempio?
È un luogo comune fuori dal tempo. Abbiamo i contributi che ci garantiscono le leggi di settore. Come l’industria e gli altri comparti. È vero che c’è una quota di utile che non viene tassata, ma questo privilegio fiscale viene controbilanciato da un vincolo fortissimo: è un utile indisponibile.

Un’ultima domanda. Una volta eletto, quali saranno le sue priorità più urgenti? Ci dica i tre dossier che avranno la precedenza nella sua agenda di lavoro.
Prima di tutto la squadra: non credo alla figura dell’uomo solo al comando. In seconda battuta il credito: la sua evoluzione sarà fondamentale e decisiva per la nostra autonomia. Infine, un piano per intercettare e coinvolgere le generazioni più giovani.

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LA SCHEDA
A 14 anni correva tra i tavoli di un ristorante di Moena, per la «stagione». A 54 anni potrebbe sedersi su una delle poltrone più importanti, ambite e «scottanti» in Trentino, quella di presidente della Federazione trentina della cooperazione. Nato a Valfloriana il 3 giugno 1961, papà boscaiolo e mamma casalinga, Renato Dalpalù non è certo partito dai salotti buoni. Diploma di perito elettrotecnico, laurea in economia nel 1986 («Con Erzegovesi, tesi sui mercati finanziari internazionali»), per poi approdare, da praticante, in uno degli studi di commercialisti più importanti in Trentino, lo studio Monti-Matuella di Rovereto: «Era il gennaio 1987, mi euro laureato a dicembre e seppi per caso che cercavano un praticante, così ho provato a cercare Monti: l’ho chiamato decine di volte. Alla fine strappai un appuntamento alle sette di sera. Mi ricevette alle nove. un’ora di colloquio, poi mi chiese: quando vuoi cominciare? Domani, risposi. Sono ancora lì...». Non ha tessere di partito e in politica ricorda solo «una buona relazione con Walter Micheli». Con Ugo Rossi «rapporti istituzionali».

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