Latte, dal prossimo 1° aprile addio al regime delle «quote»

Finisce un’epoca, a fine mese, in coincidenza con il termine della campagna casearia 2014-’15: l’epoca delle quote latte, regime introdotto nel 1984 dalla politica agraria comunitaria per fissare un equilibrio, Paese per Paese, tra produzione e consumo di latte. Che cosa succederà in Trentino?

di Domenico Sartori

Finisce un’epoca, a fine mese, in coincidenza con il termine della campagna casearia 2014-’15: l’epoca delle quote latte, regime introdotto nel 1984 dalla politica agraria comunitaria per fissare un equilibrio, Paese per Paese, tra produzione e consumo di latte. L’obiettivo, allora, era evitare il crollo dei prezzi. Durante la gestione trentennale, è successo di tutto, e l’Italia s’è ritrovata sulle spalle, grazie agli allevatori padani sostenuti dalla Lega Nord che hanno sgarrato per anni, allagando le strade di latte e letame, un conto spaventoso di oltre 4,2 miliardi di euro di «multe» non pagate, cui si somma il recente deferimento alla Corte di giustizia Ue. Il Trentino esce indenne da questa vicenda. Ha saputo gestirla, anticipandone l’applicazione. Ma si trova ora a fare i conti, tra preoccupazioni e incertezza, con il nuovo scenario che lo getta ancora di più sui mercati globali. E i timori crescono.

In Trentino, la struttura del settore zootecnico è profondamente cambiata nel corso degli anni. Oggi è rappresentata (dati del 6° censimento della Provincia) da 2.513 aziende di cui 1.331 con bovini, per un numero complessivo di 81.106 capi. Di questi 45.395 sono bovini, di cui 21.688 vacche da latte.

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Numeri in calo
Il censimento della Provincia registra una produzione lorda vendibile del settore zootecnico pari a 117 milioni di euro (di cui 55 milioni da latte). Ed è un dato riferito al 2010. Considerando i 19 caseifici in attività, nella stagione 2011-’12 gli 833 allevatori trentini hanno prodotto 1,48 milioni di quintali di latte. La tendenza al calo del numero degli allevatori è confermato dal dato relativo alla campagna casearia in corso, iniziata il 1° aprile 2014 e che terminerà il prossimo 31 marzo, che vede coinvolte nella produzione di latte vaccino 791 aziende.

Piccole e «grandi» aziende
A fronte di una sostanziale stabilità della produzione di latte bovino attorno alle 140 mila tonnellate negli ultimi dieci anni, il settore è stato però investito in pieno dalle trasformazioni strutturali sopra indicate: forte ridimensionamento del numero di aziende, difficoltà per il ricambio generazionale, problemi di redditività. Meno aziende, ma più concentrate. In Trentino, oggi, il 25% delle aziende (220) detiene un numero di capi inferiore a 10, il 47% (410) tra 10 e 49, il 19% (163) tra 50 e 59. Ve ne sono solo 16 (il 2%) con oltre 200 capi.

La «deriva padana»
La scelta, soprattutto negli anni ’80, purtroppo accompagnata dalla politica provinciale, ha fatto sì che molti si siano buttati ad inseguire il «modello padano», una produzione industriale fatta di grandi stalle, silomais e alimentazione spinta delle bestie. La quasi totalità dei capi (94%) appartiene a poco più della metà delle aziende, e 32 aziende (3,78%) producono più del 25% del latte trentino.

Le «macchine da latte»
Anche questo spiega la trasformazione registrata nella distribuzione delle razze allevate in Trentino, che vede oggi la Frisona (autentica «macchina da latte» capace di produrne 85 quintali a lattazione, financo 100) primeggiare. La Frisona è la razza più diffusa (38% del patrimonio bovino trentino), seguita dalla Bruna (35%), dalla Pezzata Rossa (14%), dalla Rendena (5%), dalla Grigia (4%) e dalla Meticcia (4%). Dunque, le razze più rustiche e più resistenti, più adatte alla montagna e in grado di produrre latte di maggiore qualità, ma meno produttive (la Rendena produce in media 48 quintali), sono state sacrificate in nome della «resa», al pari - si potrebbe dire - di chi sacrifica la qualità nel vigneto tenendo alte le rese per ettaro delle vigne.

«Una crisi tremenda»
In questo contesto, arriva la fine delle quote latte. Dal suo osservatorio, il direttore della Federazione provinciale degli allevatori, Claudio Valorz, osserva: «A livello nazionale, da un anno e mezzo a questa parte, la zootecnia da latte è in una crisi tremenda. Il prezzo è precipitato dai 50 centesimi ai 28, 30, 32 per litro attuali». E dall’Europa vengono importati latti senza particolare qualità, come quello «Spot», destinato all’industria. Valorz riconosce che, per ora, in Trentino «la crisi si sente meno». Per due ragioni, argomenta: in primo luogo, «gran parte del latte prodotto (l’80%) va alla cooperazione, il 50% per diventare formaggio, il 30% latte alimentare, dove Latte Trento, tra i 17 caseifici, fa la metà di quello consegnato»; in secondo luogo, perché «si è puntato sulle Dop, come il Trentingrana e il Puzzone di Moena e formaggi ben remunerati sul mercato, come il Casolet della val di Sole o la Tosela del Primiero». Per Valorz, se nei prossimi bilanci, relativi al 2014, non ci sarà un grosso ridimensionamento, «il latte munto ora, con cui si faranno i bilanci del 2015, è un grosso punto di domanda». Come dire: solo se nel secondo semestre 2014 ci sarà una ripresa del mercato, che qualcuno prevede, si potrà tornare ai livelli del 2014.

Il futuro: qualità e territorio
Il futuro, dunque? «Proseguire sulla strada intrapresa da anni» risponde il direttore della Federazione allevatori: «Produzioni che si distinguono, con un valore aggiunto legato a qualità e identità territoriale». Per andare in questa direzione, la zootecnia oggi assorbe il 50% delle risorse del Psr, il Piano di sviluppo rurale della Provincia. Ma quanto ancora pesa il «modello industrial-padano», concentrato in poche aree (Alta val di Non, Bleggio-Lomaso e Bassa Valsugana)? Risponde Valorz: «Si può dire che la zootecnia, in Trentino, oggi è tutt’altro che industriale. Le stalle con oltre 120 capi si contano sulle dita di una mano. La media provinciale è di 30 capi per stalla. Una stalla che però - aggiunge il manager della Federazione allevatori - deve stare sul mercato e confrontarsi con quelle da 500 capi di Brescia, Mantova, Cremona. Per questo è fondamentale il rapporto con il territorio: tutto sommato, gli allevatori lo hanno capito».

Più pascoli in futuro
«Gli allevatori hanno capito che questa è la strada» ribadisce Valorz «l’aumento dell’uso delle malghe da latte e di quelle che fanno la trasformazione sul posto sono segnali interessanti, in controtendenza, come lo è il ritorno alla stalla dei giovani, per passione o per necessità. Gli allevatori trentini sono sempre più alla ricerca di pascoli e superfici foraggere. Semmai questo, in futuro, potrà essere un problema: garantire una superficie sufficiente per il foraggio, anche recuperando i boschi di mezza montagna».

La Bruna, occasione persa
Avere puntato sulla Frisona, soprattutto negli anni ’90, che produce di più, per Valorz è stata «un’occasione persa. Vero che viviamo in un’epoca di specializzazione in ogni campo. Ma la nostra è zona da razza Bruna, ideale per la qualità del formaggio, e Grigio Alpina e Rendena». La Frisona è alimentata con il silomais e non va in malga. «Ma la tendenza a copiare il modello padano» assicura «è finita». La conclusione di Valorz è netta: «Smarcarsi dalla produzione globalizzata e indifferenziata: lì, non c’è futuro, perché con 30-32 centesimi a litro gli allevatori trentini non possono sopravvivere».

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IL MERCATO

Dal primo aprile, con la fine del regime trentennale delle quote latte, gli allevatori trentini navigheranno in mare aperto. Basta vincoli alla produzione nei 28 Paesi dell’Unione europea. E anche il latte trentino, più di ora, dovrà fare i conti con i mercati globali. «Siamo tutti preoccupati, perché non vi è alcuna certezza sullo scenario futuro» dice Andrea Merz, direttore del Trentingrana-Concast, il Consorzio di secondo grado con stabilimento di stagionatura e commercializzazione a Segno, che raggruppa sedici caseifici sociali, da quello di Fassa a quello di Sabbionara, sotto il brand «Gruppo Formaggi del Trentino», e commercializza anche il Trentingrana prodotto dal Caseificio di Pinzolo e del colosso «Latte Trento», sostenuto da 350 soci allevatori.
Concast, nel 2013, ha chiuso il bilancio con 56,3 milioni di fatturato, in leggera crescita sul 2012, con un valore della produzione di 58,7 milioni e un utile netto di 237 mila euro, con una liquidazione media dei caseifici superiore ai 0,57 euro al litro, arrivando anche a 70 centesimi per materia prima di elevata qualità, con un export che ha rappresentato il 7% del fatturato. Il bilancio 2014 non è ancora stato chiuso, e Merz non se la sente di anticipare dati. Ma indica la tendenza. «Sicuramente, una riduzione ci sarà, un calo però leggero, più lieve di quanto si potesse immaginare». A preoccupare è soprattutto il contesto in cui si inserisce la fine delle quote latte. «La crisi generalizzata dei consumi» dice il direttore di Concast «non poteva non interessare il latte e i formaggi, incidendo su quantità prodotte e prezzi». Il calo ufficiale dei prezzi considerato a livello nazionale è nell’ordine di alcuni punti percentuali.
Per «scontare», per così dire, l’effetto dello stop ai vincoli produttivi, sia le aziende europee che nazionali da alcuni mesi hanno aumentato la produzione: «Più 5% in Europa, più 3-3,5% in Italia» dice Merz, Per cui, nel nostro Paese, dopo alcuni anni in cui non si eccedeva nella produzione, ricompaiono le «multe», cioè i prelievi supplementari per la produzione in esubero (vedi tabella a fianco). «Ma da noi, in montagna, non è come nella pianura Padana o in Francia, Germania e Nord Europa. Da noi, con pochi pascoli e prati» osserva Merz «l’aumento della produzione è pura utopia. Il rischio è quello di un divario sempre maggiore tra le zone più vocate, che possono produrre di più, e quelle, come il Trentino, meno vocate: qui, tra maggiori costi di produzione e minori superfici, la zootecnia rischia il ridimensionamento».
Il rallentamento dell’export verso la Russia e Cina-India, che hanno ridotto gli acquisti di latte e suoi derivati, ha contribuito all’eccesso di offerta in Europa, «con una riduzione dei prezzi anche anche del 20-25%» dice Merz.
Come può difendersi, in tale contesto, la zootecnica trentina? La risposta è nota. È quella su cui, negli ultimi anni, dopo la «deriva padana» degli anni ’80 e ’90, la stessa Provincia ha «stimolato», con misure ad hoc, i produttori e le organizzazioni cooperative: tipicizzare e certificare le produzioni, renderle tracciabili, legarle al territorio. In una parola, la qualità. «Con la tipicizzazione, come con le Dop Trentingrana, Spressa e Puzzone, con prodotti che abbiamo solo noi, inimitabili, ci possiamo difendere sul mercato, evitando, grazie al valore aggiunto del prodotto, la guerra sui prezzi, posizionandoci su altri target» ribadisce il direttore del Concast «riconoscendo ad un tempo il ruolo sempre più multifunzionale della zootecnia, per la difesa e salvaguardia del paesaggio, la cura del territorio e le sinergie con il turismo». Altra strada, fa capire, non c’è. «Intanto» aggiunge Merz «pare che a livello Ue si stiano rendendo conto, ora, che per la fine del regime delle quote latte serve un atterraggio morbido, non solo affidarsi al mercato, quindi misure particolari per salvare gli allevatori e dare loro una stabilità di reddito, evitando in questo modo la decrescita produttiva».

DOPO LE «QUOTE»

Cosa potrà succedere, in Trentino, con la fine del regime delle quote latte? «L’aumento della produzione non è praticabile» spiega il direttore della Federazione allevatori, Claudio Valorz «anche per i limiti urbanistici ed il rapporto Uba (Unità bovina adulta) per ettaro (2,5, ndr) che le aziende devono garantire. Certo, se Germania e Olanda decidessero di aumentare del 10% la produzione, sarebbe un disastro». «Sono poche le aziende trentine che, dal 1992, hanno dovuto versare per i prelievi supplementari» spiega Michele Rizzo del Servizio agricoltura della Provincia «poi hanno dovuto sottostare al regime delle quote: chi produce in esubero si vede trattenere dal caseificio 27,83 centesimi al kg, salvo poi beneficiare delle compensazioni nazionali tramite l’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ndr) in quanto produzioni eccedenti in zona di montagna. In Trentino non c’è un’ organizzazione dei produttori che potrebbe ottenere il riconoscimento europeo e garantire un prezzo del latte alimentare stabile almeno con contratti semestrali».

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LA TESTIMONIANZA

«La fine delle quote latte può essere un problema, perché noi allevatori di montagna non abbiamo la forza per competere con la pianura, che ha la possibilità di aumentare le produzioni. Prevedo che una buona parte di allevatori di montagna andrà a sparire. A a 38-40 centesimi al litro non si può vivere. E oggi arriva latte dall’estero anche a 30!». È pessimista, Giovanni Battista Polla, decano degli allevatori della val Rendena. Polla è presidente dell’Associazione nazionale allevatori della vacca Rendena e, dal 2012, presidente anche della Federazione europea delle razze bovine autctone del sistema alpino. «A livello nazionale» dice «siamo 170 allevatori di vacca Rendena. In valle ci sono 25 stalle con circa 1.300 vacche da latte, numero stabile da alcuni anni». Polla è stato per una vita attivo nella cooperazione, nel cda del caseificio di Pinzolo. «Poi» racconta «mi sono tirato fuori quando si sono fusi con Fiavè e, da sei anni, non sono nemmeno più socio». E perché? «Perché la mia è un’azienda biologica da oltre vent’anni, produciamo e trasformiamo solo latte bio. E quando ha cominciato a comandare Latte Trento (cui fa oggi capo il caseificio di Pinzolo, ndr) decidendo di pagare la metà il latte biologico, ci siamo staccati. Noi non gli interessavamo più. E noi chiedevamo anche di poter trasformare una parte del latte per il nostro agritur».

Così, da cinque anni, Giovanni Battista Polla, con il figlio Mauro e la figlia Ivana, e con il casaro Giovanni Mosca, gestisce Maso Pan, un’azienda gioello nel parco agricolo di Caderzone Terme, direzione Pinzolo. Stalla con 60 vacche da latte e altrettante manze e vitelli. Un’azienda integrata, tra produzione latte, caseificio con spaccio, agritur con 18 posti letto e, al fianco, il bar gestito dalla figlia Marta. Funziona? «Sì, all’inizio è stato difficile. Ci mancavano le scorte di stagionato, dovevamo crearci il mercato. Ora, posso dire che, facendo tutto a metro zero, va meglio di prima». Ma se l’orizzonte, dalla piana di Maso Pan, si amplia al sistema latte del Trentino, Polla è preoccupato: «Fino ad ora i caseifici acquistano solo dai soci, ma in futuro? Se il latte arriva dall’estero a prezzi molto più bassi, i soci rischiano di prendere meno». In estate, la vacche salgono in quota per l’alpeggio nella zona dello Spinale (malghe Fevri, Boch e Montagnoli dove, da quest’anno, attiverà il caseificio).

Può dunque reggere, il sistema trentino, l’urto della fine delle quote e del mercato globale del latte? «Sì» risponde Polla «a patto di continuare a produrre formaggi e latte alimentare di qualità, ovviamente senza aumentare le quantità». E il colosso Latte Trento da lei abbandonato? «Con un caseificio unico a Trento e l’altro a Pinzolo ha ridotto i costi, e gli allevatori dovrebbero prendere qualcosa di più. Se chiudesse Latte Trento, salterebbe l’intero sistema: deve rimanere un modello di riferimento, soprattutto per i giovani che lavorano nella zootecnia. Deve funzionare, perché non tutti possono farsi il loro caseificio. E la Provincia deve sostenere soprattutto i giovani allevatori». È l’analisi di chi per tutta la vita ha difeso la «sua» razza Rendena. «Le Frisone non le porti al pascolo, mentre le Rendene in estate sono tutte in quota. E noi, per il turismo, abbiamo bisogno di vacche al pascolo, che hanno anche una funzione di tutela del paesaggio. La Frisona, dopo due parti, è fuori gioco, carne da macello. La Rendena» dice Polla «ne fa 6-7, in 9-10 anni di vita media. Giornalmente, per produzione, vince la Frisona, ma nel tempo la Rendena, se non è alla pari, è superiore. Una manza costa 2 mila euro: se la vendi a 3-400 euro per la macellazione dopo due anni, la differenza c’è tutta».

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