Il nome della rosa, applausi alla trasposizione teatrale

di Antonia Dalpiaz

Sono passati trentotto anni dall’esordio di Umberto Eco nelle vesti di autore con il suo capolavoro Il nome della rosa forte di ben 47 traduzioni in tutto il mondo e più di 50 milioni di libri venduti, tradotto successivamente in pellicola cinematografica nell’86 per la regia di Jean Jacques Annaud e riscritto per il palcoscenico da Stefano Massini, in scena a Trento in questi giorni per la Stagione di Prosa ad opera di tre teatri nazionali Torino, Genova e Veneto per la regia di Leo Muscato.

Una scrittura potente che pur partendo da una detective story ambientata nel XIV secolo in un’abbazia del nord Italia si traduce in un affresco inquietante del potere di una chiesa del tempo, incapace di adeguarsi al mutare delle cose e caparbiamente intenzionata a difendere la propria egemonia e la propria storia. Questa è in effetti la vera forza dell’opera che sa scavare, entrare nel labirinto di misteri millenari, nei segreti di una biblioteca tenuta forzosamente blindata per non permettere l’accesso a chi vorrebbe assegnare alla conoscenza il valore della positività e della speranza. Un messaggio forte e sempre attuale che Stefano Massini ha saputo plasmare in un testo drammaturgico dove l’opera di Eco ha mantenuto la sua forza comunicativa, affidato poi a Leo Muscato che ha disegnato una regia tesa a creare anche scenicamente una messa in scena potente, con effetti plastici indovinati, luci e musiche ben gestite per creare ambientazioni suggestive grazie a cambi rapidi e schermi/video utilizzati per raffigurare le vetrate della chiesa o gli scaffali dei libri. Uno stratagemma che ha permesso di passare da un luogo all’altro senza rallentare il ritmo di una storia che punta molto al valore della parola e dei suoi significati, affidato ad un cast di attori la cui interpretazione, realizzata con toni gravi e solenni ha fotografato il clima del tempo.

Da menzionare in particolare Luigi Diberti, nel ruolo del vecchio Adso. Pacato e dolente ha reso molto bene il suo ruolo di narratore, riflettendosi nel giovane ed inesperto novizio, (Giovanni Anzaldo) in un indovinato gioco delle parti che riassume e spiega efficacemente il percorso delle vicende e le porta a compimento.
Intrigante la scelta di «modernizzare» il taglio interpretativo di Luca Lazzareschi nei panni del frate detective Guglielmo da Baskerville, in quanto voce della ragione e del cambiamento. Un’intuizione azzeccata che ha dato forza alla lettura e ai significati di un’opera a più strati.

Struggente e sensuale la figura della «ragazza» (Arianna Primavera) il cui canto ha la malinconia del dolore e dell’impotenza, costretto ad esaurirsi, innocente, tra le fiamme della Santa Inquisizione. Bene anche Alfonso Postiglione, nel ruolo di Salvatore l’eretico, il cui linguaggio strano, fatto di parole incomprensibili e rimandi dialettali si è fatto espressione di una realtà contorta e confusa, impossibile da decodificare. Un lavoro importante che ha saputo coniugare armonicamente l’opera narrata, quella drammaturgica ed il lavoro della messa in scena, guadagnandosi lunghi e calorosi applausi finali.

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