Bye bye Trio, l'ultimo concerto di Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack DeJohnette

di Roberto Timo

Lo Steinway gran coda è lì, imponente, nero e lucido come una Limousine. Ai suoi piedi, adagiato su un fianco, il contrabbasso sembra un mobile antico di ciliegio; poco più in là la batteria è un castello di metallo che sbrilluccica alla tenue luce di scena con vampate color rame. Il palco deve ancora prendere vita, ma gli strumenti, apparentemente sonnolenti, sembrano fremere al pensiero delle «carezze» che tra poco li risveglieranno. I bicchieri dell'acqua sono già stati riempiti, l'asciugamano, nero, è appoggiato sul bordo del piano, il pubblico comincia a riempire la sala. Sembra una serata come tante altre, ma non lo è. Perché qui, stasera, per il jazz si chiude un'epoca.


Segnatevi questa data: domenica 30 novembre 2014. È l'ultimo concerto di Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack DeJohnette, il Trio che all'inizio degli Anni 80 ha reinventato il modo di suonare gli standards e per oltre trent'anni ha regalato meraviglie, pescando diamanti da quella splendida miniera che è il Great american songbook. Ora siamo arrivati all'epilogo. Perché? Perché la vita è come una canzone. Il tempo lo puoi cambiare, puoi dargli più o meno ritmo ma non lo puoi fermare. E prima o poi la canzone finisce. Gary va per gli 80, Jack ne ha compiuti 72 in agosto, Keith nel prossimo maggio arriverà a 70. Sono ancora in forma ed è per questo che è giusto chiudere qui. Continueranno ognuno con i propri progetti musicali, ma il Trio chiude oggi. Sono musicisti intransigenti che amano la perfezione, persone che non barano, che non si cullano sulla fama acquisita. Quel che deve succedere, succede. Lo dice la natura, prima che sia troppo tardi.


Sono i migliori della storia? Non chiedetelo a noi. Non siamo critici musicali, grazie al cielo, e la risposta è nei settemila chilometri che abbiamo volato per essere qui stasera, in questa brutta città del New Jersey famosa solo per essere tra le più violente degli Stati Uniti. L'anno scorso Newark ha seppellito 111 morti ammazzati e quest'anno ci arriverà vicino. Due li hanno stesi ieri notte in due distinte sparatorie. Forse l'unica cosa decente è questa Prudential Hall, sala dall'acustica perfetta in cui oltre tremila persone sono in attesa che il concerto inizi. Christian McBride, ottimo bassista e direttore artistico del New Jersey Performing Art Center, annuncia il Trio: «Uno dei più grandi della storia del jazz e dell'improvvisazione».


Le luci si spengono, entrano Jack e Gary affiancati, quasi abbracciati, li segue Keith che va al microfono. «Nel 1983 ci siamo trovati in studio a New York, in poche sedute abbiamo registrato i primi due album di standard. E ci siamo detti "forse ne faremo altri, forse faremo qualche concerto". Non pensavo che sarebbe successo per trentadue anni». A suo modo un commiato, ma il pubblico non lo sa perché l'addio del Trio rimane nel non detto. Nessuno lo ha mai ufficializzato, sui giornali non è mai stato scritto e il management del Trio non ha messo in piedi nessuna operazione commerciale. Qui c'è gente seria. Per la prostituzione intellettuale che ha rovinato la musica e l'arte, facendo apparire come giganti dei mediocri incapaci, non c'è spazio.
Ma il Trio sa che non ci sarà un domani e lo sappiamo anche noi. «Suoniamo ogni volta come se fosse l'ultima» ha sempre detto Jarrett a chi gli chiedeva il segreto della longevità del Trio. Ora l'ultima volta è arrivata. Non so se anche loro hanno nello stomaco quella specie di farfalla da «notte prima degli esami», speriamo di no.


I tre prendono posto. Jack impugna le bacchette, Keith china la testa come per concentrarsi, Gary abbarbicato sul suo sgabello ripete il «rito», la mano destra si alza, il pollice si appoggia alla tempia e le altre dita «spazzolano» la fronte, quasi a pulire la mente e lasciare spazio solo alla musica. Lo facciamo anche noi, ah se queste dita scacciassero quel brutto pensiero che ci tormenta. Ma niente, il tarlo è lì. È l'ultimo concerto. E allora proviamo a concentrarci. Le note di Jarrett sono delicate e introducono You Go To My Head, brano scritto nel 1938 da Fred Coots e Haven Gillespie. Gran bel pezzo per aprire la serata e andare subito alla testa di chi ascolta. Il miracolo di empatia si compie ancora una volta, i tre suonano come si deve. Noi ascoltiamo come non si dovrebbe. Ah, quel tarlo è sempre lì che ci gira in testa. Poi parte Four Brothers che con i suoi ritmi veloci dà la scossa, Gary accompagna il suono con l'espressione rapita di chi si gode in pieno la musica che suona e che ascolta, e nei passaggi più ostici che caratterizzano il pianismo di Jarrett sul suo volto si accende un sorriso di estasi.


Il tempo di una lunga sorsata d'acqua e parte il terzo pezzo, Up A Lazy River standard del 1930 di Hoagy Carmichael che il Trio suona per la prima, e ultima, volta. Keith distilla una intro da brina nella schiena, Jack spazzola i tamburi e le dita di Gary cavano dal basso le note migliori. Sul fiume pigro scorre un blues che rapisce, in platea le teste ciondolano in qua e in là seguendo il ritmo. L'applauso che segue è quasi un boato. Il concerto è decollato e dal piano escono le prime note di I Fall In Love Too Easily. A uno della fila davanti cade qualcosa, forse il libretto della serata, alla mia vicina cade una lacrima, è meno rumorosa ma fa più male. Su questo brano in passato il Trio ha costruito «extension» memorabili (The Fire Within, At The Blue Note, 1994, un capolavoro assoluto), ma stavolta il pezzo si sviluppa «normale». Dopo l'assolo di Gary, Keith rientra con una sublime raffica di note e accordi, Jack «sigilla» il tutto con il suono più leggero delle rod stick in bamboo. Chiudono il brano le note dolci di un ispiratissimo Jarrett.


Dopo tanta lentezza, si cambia registro e parte All The Things You Are, composto nel 1939 dagli immensi Jerome Kern e Oscar Hammerstein. Dopo una lunga tirata, Jarrett si alza e va dietro il piano, si asciuga il volto, beve, intanto la scena è tutta per Gary e Jack padroni del palco per un minuto. Keith torna al suo posto e la musica anche. Ci sono passaggi di una velocità spaventosa, scambi rapidi ed esaltanti. La chiusura del pezzo è perfetta, i tre si guardano, il loro sorriso ci dice che sì, anche stavolta l'hanno suonata alla grande. Un blues precede Fever, canzone del 1956 di Eddie Cooley e John Davenport (lo pseudonimo usato da Otis Blackwell) che molti ricorderanno nelle interpretazioni di Elvis Presley e più recentemente di Madonna. Jarrett si alza, si siede, sculetta, volta quasi la schiena allo Steinway, Jack maltratta il rullante, parte la «coda», i musicisti volano all'unisono. Ovazione e fine del primo set.


Mentre la platea si svuota e inizia l'assalto al bar, l'accordatore mette a punto il piano. Ecco che entra Steve Cloud, amico e grande uomo di musica, storico manager e custode dei «segreti» e delle esigenze di Jarrett, riempie i bicchieri d'acqua, sistema l'asciugamano. Gesti banali, visti cento volte, e non è un modo di dire, ma che stasera sono speciali. Tra poco inizierà l'ultimo set del Trio. Loro lo sanno, noi lo sappiamo. Il tarlo è sempre lì, e in gola ci sale qualcosa di molto simile a un groppo. Che invidia per quelli al bar, dove spiccano un pugno di personaggi da film di Woody Allen e qualche improbabile soggetto che sarebbe perfetto anche per i fratelli Cohen. Si godono bicchieri di vino e coppe di Martini, per loro è proprio un concerto come un altro.


Suona la campanella, si fa buio. I tre tornano sul palco e nella sala si spande lo swing di I've Got A Crush On You, brano ruffiano di George Gershwin reso immortale dalle interpretazioni di Ella Fitzgerald e Frank Sinatra, che il Trio ha inserito nel suo repertorio tre anni fa. Sull'intro di Jarrett a On Green Dolphin Street dalla platea parte uno starnuto che sembra un colpo di charleston, ma la musica non si ferma. Sì, è una strana serata. Attaccano The Ballad Of A Sad Young Man. Vabbè, se volete strapparci l'anima continuate così. Le spazzole di Jack e le corde di Gary stendono un tappeto sul quale il piano di Keith sparge petali di pura poesia. È musica per sognare. Ci risveglia One For Majid, uno di quei brani di grande ritmo che «puliscono l'aria». L'esecuzione è bellissima, i passaggi di contrabbasso e batteria sono pienamente coinvolgenti e, poi, il piano di Keith è sempre di livello inarrivabile. Come lui non c'è nessuno. È lui che segna la differenza tra un trio normale e il Trio. Nel battito di ciglia che sta tra la fine del pezzo e l'attacco degli applausi una signora infila un fragoroso e americanissimo «Oh yeaaah!». Io penso «Oh nooo!». Se ne è andato un altro brano, la fine si avvicina.


Un'ultima ballad e i tre si alzano, si uniscono al centro del palco, si abbracciano e lasciano la scena. Il pubblico è tutto in piedi. Tornano, Keith è in mezzo, li tira a sé e appoggia la testa prima su Gary e poi su Jack, la sua mano destra tiene quella di DeJohnette. Sembrano bambini al primo giorno di scuola. Sono giganti del jazz all'ultimo concerto assieme. Ma la gente non lo sa. Penserà che sono impazziti. Escono e poco dopo rientrano in scena. L'inchino precede il ritorno agli strumenti. E via con God Bless The Child, meraviglioso gospel di Billie Holiday, uno degli encore più battuti dal Trio. L'interplay è quello dei tempi belli, la potenza della musica anche. Non siamo ai livelli, inarrivabili, della versione di Standards volume 1, il disco del 1983 che segnò l'inizio del «miracolo», ma le note danzano che è un piacere. I fraseggi del pianoforte, i giri di batteria e del contrabbasso lasciano senza fiato. Poi la musica si affievolisce fino a spegnersi. Keith si alza, appoggia le mani al bordo del piano e fissa la cordiera, sembra volerci entrare in quel meraviglioso Steinway. Gary resta lì, abbracciato al contrabbasso come ci si aggrappa alla donna che ami prima di un lungo e incerto viaggio.


Escono, ma manca qualcosa. Ne siamo sicuri. Riecco il Trio e riecco When I Fall In Love unica certezza di una scaletta che in centinaia di concerti non è mai stata la stessa. Dio benedici Victor Young ed Edward Heiman che nel 1952 scrissero questa straordinaria summa di poesia in musica. E benedici questi tre magnifici ragazzi che decine di volte ce l'hanno regalata, ogni volta diversa e commovente. La regina delle ballad lente si srotola soave e intensa, le dita di Keith sfiorano appena i tasti, i piatti e i tamburi spazzolati da Jack diffondono dolcezza, l'assolo di Gary vale il viaggio. Questo è amore puro declamato in sette note. È musica intima che si deposita nel punto più profondo della sensibilità di ognuno. Sembra non finire più. Vorremmo che non finisse più. Dai, non fatela finire mai. Poi, però, finisce. E finisce il Trio. Lievi, dal piano, escono le ultime note. Sanno di lacrime.

comments powered by Disqus