Isabel Allende, il nuovo libro fra dittature e profughi parla di oggi narrando ieri

Era una storia che conosceva da 40 anni, da quando in Venezuela conobbe un rifugiato che, come lei, era dovuto scappare dal Cile di Pinochet, e già prima aveva dovuto lasciare la Spagna di Franco, ma solo ora Isabel Allende ha sentito che era arrivato il momento di raccontare le difficoltà di chi fugge dalla dittatura in cerca di un nuovo posto da chiamare casa. Lo ha fatto in «Lungo petalo di mare», forse il suo più bel romanzo degli ultimi anni, edito come sempre da Feltrinelli.

«Non avevo ancora sentito la necessità di scrivere questa storia, ma ora la tragedia dei migranti e dei richiedenti asilo - spiega l’autrice, bionda, minuta e combattiva - è entrata nella coscienza collettiva. Questo libro è la storia di rifugiati che ebbero molta fortuna perchè furono accolti in Cile con molta ospitalità. Erano musicisti, ingegneri, intellettuali e cambiarono la cultura del paese che li accolse».

Se oltre 2000 spagnoli riuscirono a fuggire alla repressione franchista dopo la fine della guerra civile, nel 1939, fu grazie - come ricostruisce Allende attraverso la lunga storia del medico Victor Dalmau e di sua moglie Roser - a Pablo Neruda, che organizzò il viaggio noleggiando il piroscafo Winnipeg, che al suo arrivo a Valparaiso fu accolto da una folla festante e da una banda che suonava l’Internazionale.

Guardando all’esempio di Neruda, Allende riflette sul ruolo dell’intellettuale oggi: «quando hai una piattaforma pubblica e hai l’opportunità di intervenire per far prendere coscienza di un problema a chi non lo conosce, devi farlo, ma il lavoro dello scrittore non è far politica, bensì raccontare storie, e se queste storie incontrano la sensibilità del lettore, il messaggio arriva a destinazione».

Nel raccontare la storia di Victor, medico sempre al servizio dei più deboli, dalla Spagna in guerra al Cile di Allende, imprigionato due volte e due volte costretto all’esilio, «Lungo petalo di mare» è «un libro politico, ma non in senso stretto: lo è perchè è la realtà stessa a essere politica». Ed è vera la storia di Victor, che ricalca fedelmente quella raccontata all’autrice, durante il comune esilio venezuelano, da Victor Bey, passeggero del Winnipeg, amico personale di Salvador Allende, con cui giocava a scacchi, e di Pablo Neruda, che nascose a casa sua quando iniziò la caccia all’uomo della giunta militare di Pinochet.

«Non esiste anticorpo alla dittatura che non sia la memoria, oggi in Cile - nota amaramente la 77enne - ci sono molti disordini e i militari sono in strada come avvenne 40 anni fa. Molti ricordano quei giorni ma i giovani no e non hanno gli anticorpi per sapere che qualsiasi cosa è preferibile alla dittatura». Ed è impressionante notare come la storia si ripeta, a decenni di distanza: mentre il Cile scende in strada, lo stesso accade a Barcellona, dove inizia il romanzo: «sto seguendo la situazione catalana - dice la scrittrice - perchè la prossima settimana andrò a Barcellona, e ho la sensazione che anche lì non si chiuderà presto il cerchio della storia».

Lei stessa ha subito di persona la violenza dell’esilio: «sono figlia di un diplomatico, sono abituata fin da piccola a dire addio al posto che chiamo casa, ora sono un’immigrata in America ma sono una privilegiata. Lavorando con la mia fondazione - racconta - vedo in che situazioni terribili arrivano i migranti. Tutto ciò che accade alla frontiera tra Messico e Stati Uniti è una sistematica violazione dei diritti umani».

Lo sguardo sui migranti non è diverso da questa parte dell’oceano: «quando parliamo di rifugiati, pensiamo ai numeri, non diamo loro un volto, non pensiamo alle loro storie». E le parole della politica sono sempre le stesse: «la reazione della destra cilena all’arrivo del Winnipeg fu la stessa che ha Trump oggi, per questo - conclude - bisogna guardare alla storia, per capire cosa è successo e cercare di non ripeterlo». (di Gioia GIUDICI - Agenzia Ansa)

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