Helena Janeczek racconta a Levico «La ragazza con la Leica»

Lei elegante, raffinata e divertita, lui dall’aria rilassata e felice. Seduti al Café du Dôme di Montparnasse, Gerda Taro e Robert Capa sorridono nella foto scattata a Parigi da Fred Stein nell’aprile del 1936. Poco più di un anno dopo lei sarebbe morta, aveva quasi 27 anni, travolta da un carro armato repubblicano durante la guerra di Spagna. Lui sarebbe passato indenne ancora da molti conflitti, a partire dalla Seconda guerra mondiale, fino alla mina che l’avrebbe ucciso in Indocina, nel 1954.

L’immagine della celebre coppia di fotoreporter è una delle tante che Helena Janeczek ha pubblicato sul proprio sito web, insieme a video e musica, a beneficio dei lettori di La ragazza con la Leica che vogliano approfondire lo straordinario incontro con Gerda e il suo mondo reso possibile dal libro, Premio Strega 2018. Un mondo in cui vivono anche Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, e gli amori di Gerda, Willy Chardack, Georg Kuritzke e naturalmente il leggendario Capa, all’anagrafe Endre Erno Friedmann prima di adottare lo pseudonimo che l’avrebbe reso immortale.
Potremo incontrare Helena Janeczek venerdì 22 febbraio a Levico Terme, alle 18, quando al Parco delle Terme dialogherà con Claudia Boscolo. Nel frattempo le abbiamo chiesto di «raccontarci» La ragazza con la Leica (Guanda) - terzo romanzo dopo «Lezioni di tenebra» e «Le rondini di Montecassino» - che, mettendo a fuoco la storia di questi quasi coetanei del primo Novecento riporta alla luce gli ultimi giorni della libertà dell’Europa prima del buio atroce delle dittature.
Janeczek, perché raccontare questa storia?
«Ho incontrato Gerda Taro visitando una mostra che la univa a Robert Capa a Milano nel 2009, quando stavo lavorando al libro precedente, dove le foto dell’avanzata alleata in Italia mi stavano accompagnando con le pagine del libro autobiografico di Capa. Questa figura di Gerda si piazzò in un certo senso fra quelle che mi accompagnavano. In realtà non è facile per chi scrive narrativa dare una ragione della scelta. Mi intrigavano due aspetti: il contesto storico - anche per una sorta di sentore di paralleli con i tempi nostri - e la difficoltà di far rientrare la sua figura in caratteristiche conformi a qualsiasi modello femminile. Non era solo un’eroina coraggiosa, non era una femme fatale, era una figura difficile da far rientrare negli stereotipi e, inoltre, una donna che, da quello che riuscii ad estrapolare dalle ottime fonti, non mi somigliava per niente. Era anche una sfida».

Lei aveva già trattato il tema della memoria di quegli anni in «Le rondini di Montecassino». 

«Sì, diciamo che questo libro può anche essere considerato una sorta di threequel di quelli precedenti, Montecassino e ?Lezioni di tenebre?. Il continuum è quello di occuparmi della memoria del periodo tra le due guerre e oltre».

C’è, in questo, anche una memoria familiare sua?
«Il mio punto di partenza è quello di essere figlia di sopravvissuti alla Shoah, e quindi di essere cresciuta dentro la sensazione che la storia anche non scritta grava su coloro che ne ereditano delle parti. Questo fatto di riavvicinarsi, attraverso un lavoro di memoria, a questo passato, e di metterlo in collegamento col presente, è la cosa che fa da filo conduttore a tutto il mio lavoro».

Nel libro, Gerda viene raccontata anche attraverso gli occhi di chi le fu vicino. Ma in fondo, lei e Capa non sono protagonisti di una vita che è già romanzo?
«Sì, lo sono pure troppo. La loro storia è così romanzesca di per sè che pensavo che l’unico modo per raccontarli fosse di tenere un piede molto saldo nella documentazione e nell’oggettività, nella storia.
Non offro punti di vista che non siano quelli dei tre personaggi e mi piaceva chiamarli in causa per due ragioni: perché mi sembrava più veritiero, persino più divertente, mostrare questa donna, Gerda, come una che suscitava sentimenti di amore e di conseguenza di gelosia da parte non di un solo uomo ma anche di altri. E poi, essendo loro due così straordinariamente noti e leggendari, mi piaceva collocarli in un contesto di relazioni, affetti, amori e amicizie che facessero capire che erano coraggiosi, spericolati, fantasiosi, ma facevano parte di una generazione fatta così».

Che cosa l’ha più colpita di Gerda Taro?
«Una cosa che mi commuove ancora adesso tantissimo, molto di più di questa fotografia resa pubblica poco dopo l’uscita del libro che la ritrae in fin di vita, è uno spezzone di un documentario girato a circa venti giorni dalla sua morte, dove si vede per qualche frazione di secondo questo scricciolo, con grazia infinita, fotografare il congresso degli scrittori per la difesa della cultura, a Valencia, dove ci sono Malraux e una serie di grandi personaggi. È toccante la grazia mercuriana di questa donna».

Gli autori rischiano di «innamorarsi» dei loro personaggi?
«Sono sentimenti veri che si mettono in campo, verso tutti i personaggi. Io ammiro quelli che esplorano i cattivi fino in fondo, magari non particolarmente affascinanti... Per tutto il tempo che scrivi sei più che sposata con loro.
Soprattutto Gerda, a volte mi ha fatto anche arrabbiare...».

Per le sue scelte?
«Era senz’altro una donna con tante qualità, fra cui anche quella di riuscire a suscitare questi grandissimi trasporti, gli altri erano più in balia di lei di quanto non fosse lei in balia degli altri, compreso Capa. Lei aveva tre anni di più di Capa, quando lei morì lui ne aveva 23, era una bella differenza a quell’età».

Che conseguenze ebbe la sua morte per Capa?
«La loro alleanza era importantissima per far diventare Capa Robert Capa, lei muore quando lui non è lì e sta ottenendo un ingaggio molto importante per tutti e due. Un doppio trauma che evidentemente incide sulla sua vita futura e diventa qualcosa di simile a un destino».

Il 22 febbraio lei sarà a Levico: è la prima volta che viene in Trentino?
«Sono stata a Bolzano, in Trentino finora no e sono molto felice di venire».

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