Cognetti, viaggio in Himalaya senza vetta

di Fabrizio Franchi

È un libro di montagna, è un libro di viaggio, è un resoconto di un’esperienza. Ma soprattutto, questo nuovo libro di Paolo Cognetti è un percorso dentro se stesso. Utilizza un viaggio in Himalaya per raccontare qualcosa d’altro. Cognetti in Nepal non ha tentato di scalare, non ha cercato di conquistare la cima. Ha camminato, ha parlato, ha pensato.
E ora lo racconta in questo che apparentemente è un libricino di poche pagine, ma ci ha messo dentro cose che forse non era riuscito, o non aveva voluto mettere nelle Otto montagne, il fortunato libro con cui conquistò lo Strega due anni fa e non solo quel riconoscimento: anche il premio Itas per il libro di montagna, tanto per dirne uno.

Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, pubblicato da Einaudi, è il titolo del suo nuovo lavoro, però non è un romanzo. È il racconto del suo viaggio in quel piccolo Tibet nepalese di cui non nasconde nulla, né l’oppressione cinese, né un certo degrado locale, uscendo dalla retorica, con crudezza e semplicità, ma anche meraviglia. Ma è un viaggio dell’anima. Cognetti aveva manifestato da tempo l’intenzione di recarsi in quel posto per capire, per comprendere quel mondo diventato di fatto una sorta di luna park dell’alpinismo occidentale.
E attraverso questo viaggio vuole guardare dentro di sé, ma anche dentro il senso di un alpinismo che sta cercando solo la conquista della vetta come scopo finale. Cognetti invece, superato il crinale dei quarant’anni, quando la giovinezza ti abbandona, decide di camminare. Non gli interessa la vetta e insieme ad una piccola carovana di amici affronta centinaia di chilometri di un percorso che lo porterà a conoscere meglio quella montagna, di come «vacillano le certezze col mal di montagna, di come il paesaggio diventa trama del corpo e dello spirito». Come scrive, parlando dei suoi compagni, «sapevo che in montagna si cammina da soli, anche quando si cammina con qualcuno, ma ero contento di dividere la mia solitudine con questi compagni».

Ecco, per l’appunto. Cognetti ricerca una solitudine in compagnia, condivide la sua solitudine, perché si tratta di una beata solitudine, cercata, in cui si trova a suo agio, accompagnato anche da un cane, con cui stringe un rapporto inevitabile e dolce, sostitutivo probabilmente del suo amatissimo cane lasciato a casa e che gli mancava. La sua non è la solitudine della disperazione. È una solitudine in cui il proprio essere diventa cristallo, prisma che raccoglie luce e pensieri.

Il libro è adornato dai bei disegni di Nicola Magrin, uno dei quali campeggia in copertina, ed è con lui, come racconta Cognetti, che ha condiviso un’intimità obbligata nell’accampamento di ogni notte, ma non è una intimità forzata. È l’intimità dell’amicizia che ti porta a condividere pensieri, anche senza esprimerli ad alta voce.

Le pagine scorrono velocemente nella lettura, perché qui Cognetti è riuscito a concretizzare stilisticamente una delle sue prove migliori. Non vincerà un altro Strega con questo libro, ma chi ha amato i suoi libri precedenti non può farsi sfuggire questa gemma. Soprattutto non può farsela sfuggire chi ama il cammino, a volte senza una meta geografica, se non quella dell’anima, sospesa tra lo stupore del paesaggio e il ritrovamento di un filo comune tra le montagne che ci accolgono. I camminatori di montagna non faranno fatica a ritrovarsi in queste pagine, anzi. Perché Cognetti ha voluto in qualche modo parlare a nome di tutti loro. Ed è un modo per uscire «dal deserto del reale», quel deserto in cui siamo apparentemente tutti connessi, ma lontani.

Ha percorso 300 chilometri, superato otto passi difficili oltre i 5 mila metri con lo scopo di raccontare una montagna che è leggenda, ancora più che un luogo fisico, prima che scompaia, travolta da decisioni politiche, invasione occidentale o una sciocca rincorsa alla vetta.

Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi, 114 pagine, 14 euro.

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