Quegli occhi videro un dramma indicibile

di Fabrizio Franchi

Che cosa videro quegli occhi?, si chiede retoricamente la mostra aperta all’ex Manifattura Tabacchi a Rovereto. Videro il terrore, videro la paura negli altri e di riflesso la loro. La paura di morire, così, scioccamente, in una trincea per un’esplosione o una pallottola.
Oppure di stenti e di malattie. O semplicemente la paura di non tornare più a casa, là dove restavano gli affetti in terribile e snervante attesa, senza informazioni, notizie dei loro cari. La paura di ricevere la notizia più angosciante, quella della morte di un padre, di un marito, di un fratello combattente.

È una mostra per certi versi diversa, quella allestita all’Ex Manifattura dal Laboratorio di storia di Rovereto, coordinato dallo storico Diego Leoni e grazie alla promozione del Museo civico di Rovereto con il sostegno di Trentino Sviluppo, della Provincia di Trento e del Comune di Rovereto. Una mostra diversa perché evita la retorica, l’agiografia, racconta senza falsi problemi il dramma di decine di migliaia di trentini che partirono dalla loro terra per combattere con l’Impero austroungarico, fin dal 1914 e altre centinaia che lasciarono tutto per combattere con l’Italia l’anno successivo. Forse 72 mila i combattenti con l’Impero, 878 con gli italiani, 15 mila i prigionieri in Russia, 12 mila i caduti, 3200 i mutilati e invalidi, 115 mila i profughi, numeri terribili per una popolazione di complessive 387 mila unità.

La mostra arriva dopo quella del 2015 sui profughi (Gli spostati) che ha conquistato estimatori fuori dall’Italia tanto che sta viaggiando in Repubblica Ceca dove, spostandosi di città in città, resterà fino a parte del 2019. L’esposizone di Rovereto invece racconta anche delle lunghe peregrinazioni che alcuni dovettero sopportare, dopo essere stati prigionieri, per rientrare in Italia, in Trentino, dove tutto era cambiato dopo il 1918. Peregrinazioni che portarono molti di loro a passare per la Cina, altri a fare il giro del mondo passando dagli Stati Uniti e tornare poi in Europa. Follie della guerra e di sistemi che erano crollati dopo il 1918, come fossero di pasta frolla, portando via con sé confini, costumi, architetture istituzionali che non torneranno mai più.

Ma dietro quella frattura e quel conflitto c’erano storie umane, drammatiche. C’era stata un’esperienza che aveva segnato tutti profondamente.
Il titolo completo della mostra è Cosa videro quegli occhi! Uomini e donne in guerra 1913 -1920, ed è una mostra che finora ha visto l’affluenza di centinaia di trentini e che molti altri ne aspetta prima della chiusura prevista per domenica 30 dicembre.

La mostra racconta la vicenda, tragica e complessa, dei soldati e molti prigionieri trentini durante la Prima guerra mondiale.
C’è la storia dell’esilio; c’è la storia di un territorio invaso dagli eserciti e da loro profondamente mutato, grazie anche al lavoro di anziani, donne e ragazzi militarizzati come avvenne con i russi in Trentino, o i serbi, deportati e che diventarono praticamente schiavi, non-uomini o sub-uomini.

«Un calcolo preciso è impossibile - dice Diego Leoni - si stima che fossero tra i 40 mila e i 60 mila dislocati sul territorio trentino». Altre storie di dolore, l’umanità offesa e il nemico non rispettato.
Dentro la mostra, che si snoda su più capitoli e in diverse sale di un’ala della Manifattura, c’è il racconto del dolore, del lutto, anche la storia di avventure e di eroismi. Le sale vivono in una sorta di crepuscolo, a dare il senso di una grande cupezza.

Quattro diversi livelli, oggettistico, fotografico, cinematografico, grazie ai lavori di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian e poi l’apparato didascalico, ci introducono nell’indicibile, che però bisogna avere la forza di guardare, di capire.

Lo sforzo encomiabile dei volontari del Laboratorio di storia è stato quello di recuperare molti oggetti, anche all’estero che ci portano dentro la quotidianità della guerra: oggetti di culto, posate, strumenti musicali, accessori per la cura del corpo, diari, lettere. Cinquecento sono gli oggetti esposti. E di converso, quasi un controcanto, fotografie, tante, drammatiche. Alcune immagini davvero agghiaccianti, di morti, altri devastati, come i mutilati senza faccia per le esplosioni che fanno venire in mente il romanzo di Pierre Lemaitre, il capolavoro Ci rivediamo lassù pubblicato qualche anno fa che racconta proprio il dramma di un mutilato senza mezza faccia. Come vissero il dopoguerra quelle persone?
Il cammino della mostra, diviso in dieci stazioni esprime già nei titoli tutta l’angoscia di chi visse quei momenti. «Mi sono messo la faccia tra le mani», «I morti erano a cataste», «Il cuore è muto». Una sezione è dedicata anche a Gianni Caproni e Giovanni Battista Trener, perché la guerra fu anche per aria. E forse se Luigi Cadorna avesse ascoltato le teorie di Caproni relative all’asta dell’Adige, «la guerra avrebbe potuto avere storia più breve», dice Leoni.
Ma la storia non è solo quella dei militari. È anche quella dei civili, deportati. Di famiglie a lutto, di famiglie come i Tschurtschenthaler di Borgo Valsugana. Il figlio più giovane in fuga con gli italiani e ucciso poco dopo l’arruolamento cojn i bersaglieri.
Il figlio più grande asso dell’aviazione austriaca. Chissà come deve essere stata fredda nel cuore la lama del dolore della loro madre. Ma ci sono anche storie come quelle di Luigi e Guido Miorandi, quest’ultimo arruolato con i canadesi e parenti dell’attuale presidente del Museo della Guerra di Rovereto. Roveretani che si ritrovano, dopo tanti anni, casualmente, al porto di Genova nel caos della smobilitazione. Ogni apparato didascalico è da leggere, è da capire. Non ci sono giudizi: c’è il dramma di una umanità offesa e mutilata.
Così, la mostra sfuma alla fine, nel ricordo e nella dolcezza della famiglia, a sottolineare che c’è anche speranza per chi resta, perché deve continuare a vivere.

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