Al via il 64° Filmfestival con Messner e Shackleton

di Fabrizio Franchi

Partito. Il Trento Film Festival è iniziato, un poco in sordina in verità, ma questo gioiello culturale, che è quello che da decenni meglio marca l’identità del nostro territorio ci ha abituato alla lentezza. E ieri, eccezion fatta per il film di Alberto Maria De Agostini vecchia figura di missionario, peraltro colonizzatore dei tempi del fascismo, eventi non ce n’erano. Solo inaugurazioni di mostre e di Una montagna di libri in piazza Fiera. Un tendone che resterà quasi come un’oasi per quei cittadini che vogliono leggere e trovare tanta editoria di montagna, ma non solo, come ci ha testimoniato uno dei gestori, Simone Berlanda  libraio dell’Ancora insieme alla Viaggeria . Forse la gente sta tornando al libro e sotto il tendone al centro della grande piazza sta acquistando - e parecchio - e anche molta narrativa.

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Ecco, il primo giorno di Film Festival possiamo dire che è stata una introduzione alle prossime pagine che ci proporranno i film, gli eventi, gli appuntamenti. Una introduzione per pensare per riflettere. E mica solo sulla montagna, sulle vette, sui grandi scalatori. Perché il Trento film festival certo propone grandi scalatori, come Messner questa sera o Simone Moro. Ma la lezione è una lezione ambientalista e soprattutto una filosofia di vita, perché gli elementi naturali invitano ognuno di noi a recuperare il senso della vita e delle cose vere, a recuperare anche noi stessi.

Ecco allora che la prima giornata non ha fatto il botto, ma solo perché il festival è così: discreto, tranquillo, un inno alla lentezza.
E non si pensi che ci sia disinteresse. Le mostre hanno visto subito afflusso di cittadini incuriositi. Informati.
Ma se l’inizio è stato nello stile del Festival, con il passo lento di chi sa che deve percorrere dieci giorni che saranno lunghi, lunghissimi, i prossimi saranno di corsa con tanti grandi appuntamenti. Se Messner stasera ci racconterà l’Endurance di Ernest Shakleton con l’esplorazione di un viaggio incredibile in Antartide, poi avremo altri appuntamenti imperdibili.

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E, avendo cominciato con i libri non si potrà non ascoltare domani Martin Pollack  che ha scritto uno dei libri più interessanti degli ultimi tempi, pubblicato dalla Keller editore, Paesaggi contaminati, un reportage sull’Europa del Novecento e sui suoi massacri di massa. Con lui Alberto Faustini e Valerio Pellizzari, già corrispondente del Messaggero e uno dei più grandi giornalisti di guerra che l’Italia abbia mai avuto, ma che, non avendo mai bazzicato i salotti televisivi, non ha avuto la fama che avrebbe meritato. Sicuramente il dialogo tra lui e Pollack possiamo dire fin d’ora che sarà una delle cose che resteranno nel ricordo di questa edizione.
E prima degli eventi ci sono le mostre. Sta già avendo l’attenzione dovuta la mostra fotografica curata da Alessandro Gruzza e intitolata Le montagne del deserto sistemata a Torre Mirana. Rappresentati altopiani desertici d’alta quota delle Ande cilene settentrionali che custodiscono ecosistemi selvaggi. Ambienti incredibili fotografati con luci e colori straordinari.

Il Cile, appunto. Paese incredibile. Sudamericano, ma come tanti luoghi sudamericani, anche molto europeo. Culturalmente, socialmente. Sempre a Torre Mirana, in un filo ideale che tiene insieme tutto e ci rappresenta una mappa - anche mentale - del Cile, il Paese ospite, c’è il Memory cileno con illustrazioni e figure, a cura di Monica Monachesi per la Fondazione Stepan Zavrel di Sàrmede. Passaggio importante e letterario, perché è la letteratura che travalica le frontiere, le cancella, in questo momento in cui a pochi chilometri da noi si vogliono erigere fili spinati, più o meno camuffati dalle falsità delle parole, ché gli intellettuali, quando fanno il loro mestiere, sanno smascherare. E proprio gli scrittori cileni hanno saputo essere acuti e precisi in questo. Pablo Neruda e soprattutto Luis Sepúlveda, a cui è dedicata un’intera sezione della mostra con le illustrazioni di Simona Mulazzani. Nel Memory cileno anche un omaggio ai dodici animali per sei illustratori cileni edito da Else e l’omaggio poi a Gabriela Mistral: Reino Animal in cui ascoltare la voce della poetessa vincitrice del Nobel e forse oggi dimenticata, ma che a Trento si vuole ricordare, ridando voce alla sua singolare visione della natura.

Queste due esposizioni rimarrano aperte al pubblico fino al 22 maggio tutti i giorni, quindi oltre la durata del Festival. Ma tanti saranno altri momenti per ricordare il legame tra il Cile e il Trentino con la sua emigrazione.
E così stiamo ancora parlando di letteratura, di libri, di umanità dolente. Lo fa il Trento film festival, con lentezza, per ricordarci chi eravamo.


MESSNER E SHACKLETON

Ci vuole senso del limite per riuscire a superare i limiti: a più di 70 anni chi di avventure ne ha avute tante, estreme, si misura con l’umiltà necessaria per superare le più grandi difficoltà. Reinhold  Messner sarà stasera alle ore 21 all’Auditorium S. Chiara per «South! The Last Trip», film evento del Trento Film Festival (regia di Sandro Filippini). Si tratta del racconto di quella che è stata definita la più grande avventura di ogni tempo: la spedizione dell’Endurance in Antartide di Ernest Shackleton. «Sono esattamente 100 anni che la spedizione di Shackleton in Antartide rimase bloccata - ci ha raccontato Messner - quella dell’Endurance fu, a mio avviso, l’avventura più grande che l’uomo abbia vissuto. Non fu un successo. Perché l’obiettivo non venne raggiunto. Si trattò di un fallimento: anche se tutti i 28 uomini dell’equipaggio della Endurance alla fine tornarono vivi a casa».

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Lei è stato in Antartide, da solo.

«Conosco bene tutti i posti della vicenda dell’Endurance. Ho attraversato tutto l’Antartide e mi sento in grado di raccontare una storia che in qualche modo ho vissuto anch’io, ovviamente in condizioni diverse. Gli uomini di allora non avevano la nostra tecnologia, telefonino satellitare o gps. Non ebbero nemmeno la possibilità di comunicare via radio, perché l’Antartide era troppo lontano da qualsiasi ponte radio del tempo. Ce l’hanno fatta a tornare vivi. Questo è fantastico e vorrei  raccontarlo, anche con diapositive e altro materiale filmico».

Giusto inserire questa storia nel Film Festival?

«A Trento ogni anno il Film Festival ha avuto il coraggio di parlare di un fatto storico importante. Per guardarlo con la lente d’ingrandimento in modo da far emergere i dettagli. È un modo per capire il significato profondo di un certo evento per la storia. Il festival di Trento è la montagna, ma anche l’avventura: quella che a me interessa più di altro. Assieme allo sport, lo sforzo estremo dell’uomo alla ricerca dei suoi limiti. Quell’uomo che esplora le sue possibilità fuori dalla civilizzazione».

Lei d’imprese ne ha fatte tante: qual è l’atteggiamento giusto per portarle a compimento? 

«Ripercorrendo la vicenda dell’Endurance ho un grande rispetto per quelle persone. Attraverso l’empatia riesco quasi concretamente a mettermi nei loro panni, in quegli anni ormai lontani. Solo così spero di poter far capire a tutti coloro che non hanno mai fatto questo tipo di attività, questo “mestiere”, cosa significa realmente».

Cos’è la conquista per Messner?

«Avventura: non parlerei di conquista. Quel che  ho sempre cercato: un’attività in un mondo del tutto arcaico senza una rete o una doppia sicurezza per superare i pericoli. Avventura per me vuol dire essere in assoluta esposizione, all’esterno, in un mondo molto pericoloso, dove è duro sopravvivere. In una arrampicata sulle Dolomiti questa condizione dura un paio di giorni: quella in Antartide è durata, in tutto, più di due anni. Nessuno più al mondo sapeva se effettivamente le persone dell’Endurance fossero ancora vive. In Inghilterra credettero, non vedendoli tornare, fossero tutti morti. E a quel tempo c’era la guerra e nessuno pensò ad una spedizione di soccorso. Nessuno di loro morì per quella difficilissima avventura: alcuni di loro perirono invece perché chiamati alle armi al loro ritorno».

Com’è cambiato oggi il modo d’intendere?

«Vedo un grande sfruttamento pubblicitario ed economico della parola avventura. In funzione del turismo. Non che abbia nulla contro il turismo: è la base della nostra economia. Sia a Trento che a Bolzano. Se non fossimo una destinazione molto ricercata dagli amanti della montagna, non avremmo grandi speranze turistiche. Perché cresca e rimanga il turismo servono strade, rifugi, alberghi e ristoranti. Ci vogliono delle infrastrutture per chi passa qualche settimana da noi. Tutto questo però non è avventura. Se noi approntiamo sull’Everest una serie di infrastrutture, una vera pista allora anche quella montagna diventa una meta turistica e non più un’avventura. Se gli alpinisti vogliono fare del turismo si accomodino: io vado dove gli altri non ci sono e non esistono infrastrutture».

Lei però diciamo che è fortunato: avendo fatto per primo tutta una serie di avventure chi viene dopo di lei non può che imitare.

«Credo sia ancora possibile fare qualcosa per primi. Certamente la mia generazione è stata fortunata: non avevamo la guerra. C’era ancora la possibilità di trovare mete intatte in tutto il mondo. Eravamo i primi a poter fare tante spedizioni nella nostra vita e non solo un paio: personalmente ne ho fatte più di cento. Mi sono potuto permettere di essere un freelance».

Preoccupato per la situazione del clima. Le previsioni parlano di milioni di morti, soprattutto tra le popolazioni più povere, se la temperatura continuerà ad innalzarsi?

«È vero: la temperatura si sta alzando. Senza dubbio noi umani abbiamo una grande colpa, con l’abuso di energia fossile che abbiamo fatto in questi ultimi 100 anni. Però: la temperatura non ha mai tracciato una linea retta e regolare durante gli ultimi milioni di anni. C’è stato sia molto più caldo che molto più freddo di ora. Gli scienziati ci dicono che la prossima glaciazione potrebbe arrivare nel giro di 2000 anni. E sarà un problema più grave di quello attuale. Nel periodo di Ötzi faceva molto più caldo e nessuno girava in automobile».

E i ghiacciai che scompaiono?

«Non è ancora del tutto dimostrato che stiano scomparendo: stanno sciogliendosi quelli delle Alpi che non sono nemmeno l’1% di tutti i ghiacciai presenti sulla terra. In Antartide c’è l’86% di tutto il ghiaccio del mondo. Ed è in crescita questa massa di ghiaccio perché con il caldo in altre regioni del mondo nevica di più al Polo Sud. Quello della Groenlandia invece, che rappresenta l’8% del totale è in scioglimento: questo è  preoccupante. Ma di queste cose vorrei discutere con maggiore precisione, senza allarmismi e senza false rassicurazioni. Sta di fatto che alcune zone del mondo soffrono per l’aumento della temperatura e altre invece ne hanno un beneficio, creando delle situazioni di ingiustizia».

La sua è una visione in controtendenza?

«Io mi affaccio alla finestra e vedo che i boschi sono sempre più verdi e rigogliosi. Penso anche in Trentino».
Forse più verdi, ma vengono trattati molto male. «Perché siamo diventati troppo ricchi e nessuno si occupa più dei boschi. Quando ero bambino andavo d’estate con i miei fratelli per raccogliere rami e pigne per scaldarci d’inverno. Così facevano tutti e il bosco era pulitissimo!».

Qual’è l’avventura che avrebbe voluto fare?

«Ce ne sarebbero parecchie. Una montagna in Nepal, per esempio: sarei voluto partire, ma ero già troppo vecchio per affrontarla. A breve forse riuscirò a realizzare un film e raccontare l’avventura che avrei voluto fare. Non la farò: alla mia età sarebbe sciocco uccidermi di fatica e  rischiare la vita»

 

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