«Sangue del mio sangue», Bellocchio non dice molto

di Paolo Caroli

Nei cinema trentini è durato solo tre giorni (ma forse avrà un seguito) il passaggio del bel documentario «Amy. The girl behind the name», intenso e duro ritratto di un enorme talento musicale che cresce in parallelo alla progressiva autodistruzione della ragazza che lo incarna.

La scena è dunque dominata dalle pellicole della mostra di Venezia, come «Sangue del mio sangue» di Marco Bellocchio , opera che non si colloca fra le grandi produzioni del regista, come quella che porterà a Cannes, ma che è una piccola opera a realizzazione familiare, suggestiva ma non completamente riuscita. Il film ripropone alcune tematiche costanti dell'autore (l'ossessione per il ruolo oppressivo della religione e degli anziani, la donna come incarnazione della passione e della vita ribelle, il tema del gemello suicida, autobiografico), nonché il suo classico linguaggio onirico, qui più di maniera che realmente funzionale. L'opera è costruita in due parti (non molto ben amalgamate), una nel '600 ed una al giorno d'oggi (molto più artefatta e didascalica), ambientate nello stesso luogo: le vecchie prigioni di Bobbio.

La pellicola presenta sequenze efficaci e riuscite, cariche di stimoli, ed un filo conduttore non certo originale, ma comunque d'effetto, dato dal costante tentativo di una ristretta comunità al potere (che sia religioso o politico) di reprimere e controllare, ma anche dalla speranza della vita stessa, o forse del Paese, di sopravvivere, riemergere da se stesso e destarsi finalmente, come dice l'inno nazionale (un parallelismo con l'ultimo e molto più riuscito La bella addormentata). E si desterà alla fine o la storia nazionale continuerà a ripetersi? (Un indizio: guardate il nome del b&b che appare nella parte moderna).

Peccato che su questa linea il regista non riesca a mantenere il controllo e l'avere forse troppo da dire si traduce nel non riuscire a dire molto.

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