Il caso / La dottoressa sparita

Scomparsa della ginecologa, parla un’ostetrica: “In quel reparto violenza psicologica e umiliazioni”

La testimonianza di una persona che ha lavorato nel reparto di ginecologia del Santa Chiara. Confessa di aver trovato la forza per raccontare la sua esperienza professionale a Trento dopo aver appreso la storia di Sara Pedri

LA FAMIGLIA "Cercate ancora Sara"
I FATTI Sparita in Val di Non
RICERCHE L'appello di parenti e amici
L'OPPOSIZIONE "Vogliamo la verità"

di Marica Viganò

TRENTO. «La situazione è questa: incutono paura, minacciano il licenziamento, umiliano. Lo fanno per avere il rispetto del personale. Sono passati anni e la cicatrice è ancora aperta». Parla un'ostetrica che ha lavorato nel reparto di ginecologia del Santa Chiara. Confessa di aver trovato la forza per raccontare la sua esperienza professionale a Trento dopo aver appreso la storia di Sara Pedri.

Preferisce rimanere anonima e non fa nomi: "quelli" che l'hanno giudicata e le hanno causato un profondo disagio personale sono i "vertici" del reparto.

«La vicenda di Sara mi spezza il cuore. Io sono stata aiutata dal gruppo delle ostetriche dell'ospedale, un gruppo meraviglioso. Ma concordo con quanto è stato detto. Ci si sente umiliati, mai all'altezza. In più Sara ha iniziato nel periodo del Covid, con ulteriore stress che si aggiunge alla pressione lavorativa».
 

Il carico di lavoro può essere una concausa del malessere che si respira in reparto?
 

«Il lavoro è tanto, ma il problema sta nei vertici, in chi comanda il reparto. Ci si sente sempre giudicati. Se qualcosa sfugge, inizia il processo. Ci sono errori che non portano conseguenze: li chiamiamo "eventi sentinella". In ospedale, come nelle aziende, si fanno audit e briefing per capire lo sbaglio e migliorare. Nel reparto dove abbiamo lavorato Sara ed io, no: da questi incontri si usciva con un gran senso di frustrazione; oltre a fare i conti con la coscienza, ti sentivi dire che non sei valido, che non sai nulla».
 

Ci faccia un esempio di cosa poteva succedere.

«Un errore superficiale può riguardare una terapia, ad esempio tardare di un giorno il passaggio dall'antibiotico endovena alla somministrazione per bocca. Per la paziente non cambia nulla e l'errore può accadere perché la terapia è mal scritta. Ed è una catastrofe: si viene richiamati e, in privato, anche insultati. Mi hanno dato della cretina, mi hanno chiesto se avevo il cervello. Se ne parlava per mesi, l'errore veniva continuamente ricordato. Se la persona è forte e ha un sostegno può andare avanti, ma se il sostegno manca la psiche vacilla».

Il reparto di Trento è stato il suo primo incarico, proprio come Sara.

«Sì, come lei. E anche ora che lavoro in un altro ospedale pubblico faccio fatica a parlare del periodo trascorso a Trento. Se ho deciso di raccontare la mia esperienza è per dimostrare la mia vicinanza alla famiglia di Sara. Mi ritengo fortunata perché sono riuscita a venirne fuori, ho superato un concorso e trovato un altro posto. Ma in certe situazioni ci si sente paralizzati, si ha paura. Sono situazioni che si superano solo con un appoggio. Nel mio caso mi hanno salvato le colleghe, spiegandomi che non ero io quella sbagliata, ma che il sistema era malato e tossico. Per uscirne mi è servito anche un aiuto psicologico».

Nel nuovo ambiente di lavoro ha trovato una situazione diversa?

«La differenza è stata lampante. Sono arrivata con le spalle larghe e pronta a tutto. Mi sono trovata subito bene perché la normalità, come ho capito nella nuova struttura, è parlare dell'errore, capire l'origine, confrontarsi. Però il trauma dell'esperienza al Santa Chiara te lo porti dentro, si innesta nella testa. C'è la violenza psichica: si pensa di non valere nulla, di essere inadeguati, di aver preso la strada professionale sbagliata. C'è un senso di frustrazione. Ma vorrei sottolineare che questo malessere non influisce nella professione. Chi ha scelto questo lavoro lo fa per amore e per passione, e l'unico scopo è dare il meglio ai propri pazienti».

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