Attenti al rischio della «divanizzazione»

Attenti al rischio della «divanizzazione»

di Michele de Matthaeis

Perché ragazzi e adulti, con l’avanzare dell’età abbandonano l’attività fisica e prediligono la «divanizzazione»? A cosa è dovuta questa maggiore pigrizia: a veri processi fisiologici, oppure a processi culturali e sociali?

Un grande numero di studi scientifici, come riportato in un articolo della rivista Triathlete, dimostrano che l’attività sportiva, come la corsa, favorisce la circolazione sanguigna, quindi l’irrorazione del sangue nel cervello, oltre che in tutto il resto del corpo. Ciò rallenta il decadimento mentale, oltre a quello fisico.

Dopotutto, come riportato nel libro «Tecniche di resistenza interiore» di Pietro Trabucchi, l’evoluzione umana ha favorito un adattamento anatomico e fisiologico che permette all’uomo di fare attività di endurance, il cui fine era legato inizialmente alla caccia persistente che consentiva di sopravvivere in ambienti avversi come le savane. Il nostro fisico è quindi strutturato e rifinito per l’attività fisica.

È stato scoperto inoltre da Bramble e Lieberman che assieme a queste modificazioni fisiologiche l’uomo, nella sua evoluzione, ha sviluppato alcune abilità mentali per sostenere questi comportamenti come la capacità di dilazionare la gratificazione, nuovi livelli di concentrazione, capacità di resistere alle tentazioni e di distogliere l’attenzione dal dolore e dal disagio, che si traducono a livello anatomico in uno sviluppo delle aree prefrontali (sede dei comportamenti motivati).

Tuttavia se queste qualità non vengono sfruttate e coltivate, vengono perse e la fatica per riconquistarle sarà assai dura. Basti pensare a quanto è difficile tornare a praticare attività sportiva dopo un infortunio o dopo una banale influenza. Il corpo non è più abituato a fare fatica e la nostra mente ci inganna facendoci credere di non potercela fare. La cultura e l’elevato livello di benessere sono i due ingredienti alla base di questo processo di «indebolimento mentale», offrendo delle «scorciatoie» a fatica e dolore come pillole, smartphone, tablet e PC.

Quindi, anziché allenarci e impegnarci per recuperare le forze, inghiottiamo un antidolorifico e ci mettiamo davanti alla televisione o apriamo un bel video Youtube in cui c’è qualcuno che fa gli esercizi al posto nostro e con ammirazione commentiamo: «Ah lui si che è bravo …. Io non sono mica un professionista come lui, domani devo andare a lavorare, io!».

Il nostro cervello funziona come quando si inizia ad andare in palestra e il giorno dopo tutti i muscoli sono indolenziti. La prima volta è difficile, quasi una sofferenza, ma se riusciamo ad allenarci in maniera costante, regolare e portare avanti gli esercizi per diversi anni diventa meno faticoso.

Citando l’ultramaratoneta Roberto Ghidoni, «quello che l’anno precedente era sofferenza, l’anno dopo è solo fatica».
 
Con questo si evidenzia come le potenzialità dell’essere umano e delle sue capacità specifiche (forza, resistenza, memoria, attenzione etc..), perché si traducano in comportamenti concreti finalizzati ad uno scopo preciso (che può essere una performance, uno stato di benessere, le pulizie quotidiane di casa, andare a correre dopo lavoro, studiare geografia) devono essere sostenute da un approccio mentale che favorisca l’esercizio e lo sviluppo delle abilità mentali funzionali al compito (come sapersi divertire e impegnare, chiarire quali sono i propri obiettivi, monitorare i propri progressi, stabilire un piano di azione, gestire la frustrazione e in generale le emozioni e migliorare le  proprie capacità di autoregolazione).

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