L'Italia di Willy verso il voto

di Alberto Faustini

In giorni come questi, nei quali i candidati provano a essere ovunque, nel tentativo di agguantare l’ultimo voto, vien da pensare che buona parte del successo di ogni aspirante sindaco o consigliere - qui come altrove - sia nelle mani del vero partito di maggioranza. Quello che va da chi è indeciso a chi da tempo ha deciso: di non votare più, però. Il tema è planetario: il non voto un tempo era una protesta, un messaggio abbastanza chiaro lanciato nello spazio di una politica divisa in schieramenti netti; oggi è la certificazione di un’assenza. Dall’urna, ma anche dalla società. Gli ultimi si sentono sempre più ultimi. E poco conta che siano dei poveri - vecchi o nuovi - o degli intellettuali che non si sentono più di appartenere a qualcosa: un’ideologia, un valore, una visione del mondo e della vita. Parliamo di una percentuale in continua crescita: un numero al quale si aggiunge appunto il peso di chi solo in questi giorni inizia a pensare alle elezioni. Come se votare fosse un male necessario anziché lo straordinario gioco della democrazia. Gran parte della colpa è della stessa politica. Prima di tutto per una serie di atteggiamenti non esattamente nobili. Poi perché molti partiti, cavalcando la rabbia e un certo populismo, non hanno solo allontanato i cittadini/elettori dal partito avverso: li hanno allontanati da tutto. Al punto che fra sette giorni andremo a votare anche per un referendum che sembra avere, per scelta della casta (come molti ormai considerano la classe politica), un unico grande scopo: tagliare la medesima casta. Non una riforma; una sorta di suicidio collettivo. Con un messaggio di fondo ambivalente: siamo così bravi che siamo in grado anche di tagliarci; siamo così temerari da far pensare che effettivamente il Parlamento sia stato inutilmente ridondante in questi settant’anni. Anche un taglio è una riforma e un punto di partenza, si dirà. Ma lo scopo del Parlamento non è quello di assecondare il popolo: è quello - assai più arduo - di guidarlo, di prenderlo per mano, di portarlo in un futuro, almeno negli auspici, ogni giorno migliore.
C’è però una notizia che annienta tutte le altre, in queste ore. Una notizia che riempie gli occhi e il cuore di dolore e di rabbia muta. Una notizia che riguarda ognuno di noi, a cominciare da chi usa la politica per seminare - spesso ricambiato - odio. Ed è la morte di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni picchiato selvaggiamente a morte a Colleferro. Ha scritto Walter Veltroni sul Corriere di qualche giorno fa: «Ci toglie il fiato un’onda di violenza e di odio che sembra impossibile da frenare. L’odio non è un virus. E’ una terribile malattia sociale». E il malessere sociale lo può curare solo una buona amministrazione, una buona politica, capace di investire prima di tutto in formazione, educazione, cultura.

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