Quel che resta dell'Italia

di Alberto Faustini

Non è la fine di un’illusione. Perché un governo non può essere un’illusione. È la fine di un contratto. La fine di una scommessa. La fine di un’unione quasi illogica fra movimenti fra loro diversissimi in tutto: la Lega e i 5stelle. Considerato l’esito del voto di poco più di un anno fa, era giusto che ci provassero. Era giusto che cercassero di costruire, con una fusione fredda della quale in fondo il capo dello Strato prese solo atto, un’idea d’Italia.

L’impresa non è riuscita. Anche perché al governo c’erano in un certo senso due opposizioni. Fortissime nel dire cosa non si doveva fare o cosa si doveva sfasciare; meno abili nel costruire. Del resto, per distruggere un matrimonio basta una persona, mentre per farlo funzionare, come noto, ne servono due. In queste ore, non entra però in crisi solo un governo, ma anche una certa Italia, che sarebbe semplicistico definire sovranista e populista.
È un’Italia spezzata come non mai fra l’egoismo e l’altruismo, fra la paura e la speranza.

Da una parte, c’è chi non vede l’ora di dare a Salvini ciò che lui stesso chiede a dispetto del fatto che in Italia non esista ancora l’elezione diretta del premier: i pieni poteri. L’uomo forte - quello che decide per tutti noi - è sempre piaciuto, a molti italiani. Dall’altra, c’è chi teme una deriva, chi pensa che un Paese non si possa e non si debba governare con i pugni e con le promesse, ma con le carezze e con le certezze. Chi ritiene che l’Italia non possa essere il Paese dei muri - reali e virtuali -, ma che debba invece continuare ad essere il luogo del confronto, del dialogo, dell’accoglienza.

Termine che non riguarda certo solo chi arriva da lontano, disposto a morire pur di cercare di vivere una vita migliore, ma anche i tanti italiani che faticano ad arrivare alla fine del mese. Quelli che rischiano di essere le prime vittime di questa crisi al buio, che è tale per una semplicissima ragione: votare a ottobre significa andare in esercizio provvisorio, complicare ulteriormente i già delicati rapporti con l’Europa e rendere ancor più fragili - con inevitabili contraccolpi nelle nostre tasche - i nostri già precari conti.
Volere la crisi in uno scenario come questo, è a dir poco avventato. Ma non è una novità: chi si sente forte, vuol sempre fare i conti con i nostri voti, in Italia.

È già successo. Succederà ancora. Mettere il proprio destino politico davanti a quello di un intero Paese resta però un atto scellerato. In casi come questi, servirebbe la sfiducia costruttiva: prima si costruisce un’alternativa di governo, poi si manda a casa chi è a Palazzo Chigi. L’unico che può cercare di costruire è Mattarella. Ma pensare di cercare risposte  dentro un Parlamento animato dalla paura di andare a casa più che dall’idea di costruire qualcosa di diverso, è davvero difficile. Un tentativo va però fatto. Per quel che resta dell’Italia.

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