Se il tricolore torna in piazza

di Alberto Faustini

Da tempo non si vedevano così tante persone in piazza, il 25 aprile. La prima spiegazione è nelle parole del capo dello Stato: «La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono una piega tragica e distruttiva». Un passaggio (e un messaggio) chiarissimo. 
L'ennesimo paletto che il presidente della Repubblica ha piantato per delimitare in modo ancor più nitido il terreno della legittimità democratica, dell'etica repubblicana e di una memoria che si fa di giorno in giorno più breve. A Vittorio Veneto il presidente non ha solo celebrato la liberazione dell'Italia dal nazifascismo. Ha anche ricordato, rispondendo a chi si immagina che si tratti invece dell'ennesimo derby fra comunisti e fascisti, che la liberazione è di tutti. Anche di chi è... libero di non festeggiarla, preferendo Corleone a Vittorio Veneto.
Per quanto possa sembrare strano, la seconda spiegazione (della presenza massiccia di persone in piazze avvolte dal tricolore) sta proprio nella forzatura di chi la piazza, il 25 aprile, la evita da sempre con grande 
e strumentale attenzione. Dando però così a questa data un peso ancor 
più importante: perché le assenze fanno rumore - e fanno pensare - quanto le presenze. E perché certe provocazioni inducono a uscire di casa anche chi non ha bisogno di continue conferme: rispetto alle origini dell'Italia in cui viviamo, rispetto al valore non solo della libertà, ma anche di ciò che su quella libertà - non per alcuni, ma per tutti - s'è costruito.
Fare del 25 aprile una bandiera - da sventolare o da osteggiare - è un errore. Perché la festa della democrazia e la celebrazione di una fase nuova della nostra nazione non possono dividere. Devono unire. Oggi più che mai. C'è però un paradosso con il quale dobbiamo fare i conti: la sostanziale fine delle ideologie ha abbattuto alcuni confini - valoriali, prima di tutto - che sembravano indistruttibili, facendo saltare delimitazioni politiche, certezze ideali e sicurezze certificate dalla storia. Ed è su questo terreno - che s'è fatto argilloso - che alcuni politici alimentano la nostalgia di (e per) qualcosa che non s'è vissuto, capito, conosciuto, subìto. Se la festa della liberazione torna però fortunatamente a diventare rito identitario (e non ideologico) è perché il terrore, l'antisemitismo, le dittature, non si possono cancellare con una gita.

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