I libri dell'Ottocento raccontano chi siamo

I libri dell'Ottocento raccontano chi siamo

di Paolo Ghezzi

Radio3 Scienza, bella trasmissione del terzo canale della radio pubblica, martedì si interrogava su un problema antico e sempre nuovo, il viaggio nel tempo. Partendo da un libro di James Gleick.

Preferireste esplorare il passato o il futuro?, ci chiedevano. Che domande. Piuttosto che andare a vedere un ipertecnologico e forse non più umano TremilaDiciotto, non sarebbe magnifico ripiombare a ritroso in un 1618, in un 1718, in un 1818, epoche in cui si viveva trent’anni di meno perché non c’erano gli antibiotici ma il mondo era ancora giovane, e non si era mai troppo giovani per scrivere, pensare, inventare grandi cose?


Non sarebbe bello capire come si viveva prima della radio, della fotografia, della televisione, del telefono, del calcolatore?


Pensate, poter entrare nell’atelier di un Rembrandt o di un Rubens, sotto il cielo basso dei Paesi Bassi. Ascoltare Chopin o Liszt vivi, dal vivo, al pianoforte. Scoprire le sonorità inaudite dell’ultima sinfonia di Schubert o di Beethoven, appena scritta. O incontrare in una taverna Ariosto, Cervantes, Shakespeare. Offrire loro un bicchiere di vino, per ringraziarli di aver raccontato l’uomo.


Per non andare troppo a ritroso nel tempo, restando nell’Ottocento della grande letteratura: camminare sulla prospettiva Nevskij a San Pietroburgo, stringere la mano a Tolstoj, Dostoevskij, Gogol; riuscire a infilarsi nei salotti parigini per conoscere di persona Balzac, Flaubert, Maupassant, i romanzieri che ci hanno raccontato quella capitale così dolce e violenta, con i personaggi disegnati carne e sangue nelle pagine, esagerati nelle passioni e nei vizi, umani troppo umani come gli autori che li hanno creati attingendo al repertorio delle loro stesse vite, romanzi vissuti pericolosamente.

 

Prima dell’invenzione della psicanalisi, questi scrittori ci hanno raccontato nobiltà e miserie del genere umano che, due secoli dopo, ci suonano sempre autentiche. Avevano già capito tutto, i russi e i francesi, nell’Ottocento.


Balzac, in «Papà Goriot» (un capitolo della sua «Commedia umana»), osserva: «Forse alcuni non hanno più nulla da guadagnare vicino alle persone con cui vivono; anzi dopo aver mostrato loro il vuoto della propria anima, si sentono intimamente giudicate da quelle con una severità meritata; e così, provando un bisogno invincibile di adulazioni che non ricevono mai, oppure rosi dalla voglia di apparire possessori di qualità che non hanno, sperano di sorprendere la stima o il cuore degli estranei...».


Oppure: «Secondo la logica delle persone dalla testa vuota, sempre indiscrete perché hanno da dire solo cose insignificanti, coloro che non parlano dei propri affari devono svolgerne dei loschi».


E, su Parigi: «Che razza di fogna - replicò Vautrin - Quelli che ci s’infangano in carrozza sono persone oneste, quelle che ci s’infangano a piedi, sono furfanti. Se lei ha la disgrazia di rubacchiare un’inezia qualsiasi, sarà additato sulla piazza del Palazzo di Giustizia... Rubi un milione, sarà additato nei salotti come una virtù».


L’unico riscatto è la passione contagiosa per la bellezza.


Balzac fa dire al giovane Eugène: «Hanno ragione coloro che dicono che non c’è nulla di più bello di una fregata a vele spiegate, di un cavallo al galoppo, di una donna che danza».


Si potrebbe aggiungere, parafrasando, un’intera, infinita lista di «favourite things», di amabili cose: a vele spiegate una folaga, un’aquila, un airone, uno stormo di anatre, un Bolt; il soave sudore di una galoppata in bicicletta; un gatto che non galoppa ma salta, pieno di grazia. Quattro dervisci, otto irlandesi, ottocento brasiliani che danzano, come se la vita non fosse null’altro che una danza. Una donna che suona il violino, il violoncello o l’arpa; una donna - come Billie, come Nina, come Ella - che canta il blues e il jazz. Un coro che canta Bach o Monteverdi. L’ultimo raggio verde al tramonto, di là della siepe dell’infinito, o il primo raggio rosso del mattino.


I grandi romanzi dell’Ottocento ci fanno compagnia mostrandoci il bello e il brutto della vita. Raccontano l’ingiustizia sociale, rappresentano l’umana debolezza, satireggiano la cattiva politica, creano tipi umani universali in cui riconosciamo i nostri contemporanei. E ci regalano attimi fuggenti di bellezza preziosa e presto perduta.


Per questo, viene nostalgia di quell’Ottocento ancora ingenuo e stupito di essere così felice e così infelice, all’alba della modernità.

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