L’homo ludens che illude e delude

L’homo ludens che illude e delude

di Paolo Ghezzi

Sì, ci piace giocare. A qualcuno piace troppo e diventa gioco-dipendente, ludopatico, il che non è simpatico. Giocare ci piace tanto che l’homo sapiens è stato definito, in un celebre saggio dell’olandese Johan Huizinga, perseguitato dai nazisti, «Homo ludens» (1938). Uomo giocatore. Da qui alla politica ludica il passo è breve.

Non hanno ancora scritto il libro «Homo deludens» eppure è un’esperienza ancora più frequente di quella giocosa. Ci sentiamo delusi in un sacco di situazioni: de-lusi, privati del gioco, perché qualcuno si è preso gioco di noi, ci ha estromesso, non ha corrisposto alle nostre aspettative o alle nostre richieste.

Ci deludono le urne, ci deludono i perdenti, ci deludono i vincenti. Ci delude il professore, l’allenatore, il vescovo. Ci deludono i mariti, le fidanzate, i capi, i colleghi, i cognati, il cognac del cugino, la cugina della cognata, la fruttivendola e il panettiere. Ci deludono, più di tutti, gli amici di una vita.

Siccome però l’esperienza della delusione comincia nei primi tempi del nostro stare al mondo (la mamma che non ci ridà il ciuccio caduto per terra, il fratello maggiore che non ci porta allo stadio a vedere il Barcellona, Babbo Natale che non ci regala la mitragliatrice, lo zio d’America che non ci sgancia più di dieci dollari), ad essere delusi siamo abituati da sempre. Esperienza umana frequentissima, vero comune denominatore delle nostre esistenze.

Ciò a cui non riusciamo abituarci, però, è il trauma frequente del deludere gli altri. «Sei una vera delusione» è una frase che ci sega le gambe. No, il nostro «io» non sopporta sentirsi rinfacciare  la delusione che abbiamo provocato negli altri.

Deludiamo perché illudiamo: di poter fare, rispondere, soddisfare, essere all’altezza, mantenere le promesse, diciamo troppi sì e - per non deludere - eludiamo i «no», «mi dispiace», «non ne sono capace», «non ce la faccio», «non me la sento».

E così, a forza di essere possibilisti e di alimentare ottimismi, fabbrichiamo in serie le future delusioni, che gli altri ci rinfacceranno con quei verbi orribili: «Mi rincresce constatare...», «spiace verificare...», «rimango basito» (orribilissimo, il «basito»), «sono sconcertato», «francamente non comprendo come...», «dopo tre mesi di silenzio prendo atto che...», «davvero non mi capacito di come tu abbia potuto...».

Fossimo più umili, più consapevoli dei nostri limiti, fossimo meno promettenti e rassicuranti, saremmo meno deludenti, e soffriremmo meno per il ridimensionamento della nostra autostima, spietatamente operato da coloro che abbiamo deluso.
Sì, perché i delusi possono diventare rancorosi, ansiosi, permalosi, tormentosi, livorosi. Perniciosi.

Sia chiaro: solo gli avari di sentimenti non deludono mai perché non illudono nessuno. Un’anima generosa è portata, senza volerlo, ad alimentare speranze che, se non soddisfatte, confluiscono poi nei fiumi della delusione.

L’importante, forse, è non incattivirsi per troppe delusioni, restare umani e positivi, non far prevalere l’uomo deluso sull’homo ludens, che con la vita continua a giocare con la serietà dei bambini che giocano, come fosse il gioco più bello, illusioni e delusioni incluse.

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