La parola risorge in chi sa guardare

La parola risorge in chi sa guardare

di Paolo Ghezzi

Forse la parola, oggi, ha bisogno di ripartire da un’immagine, per ritrovare linfa e forza. Proprio perché siamo sommersi e non salvati da un oceano di immagini di scarsa qualità e di utilizzo ultraveloce, tornare a guardare - con calma, in silenzio - può essere un esercizio che restituisce dignità alle parole.

Questa è l’intenzione di una bella collana de Il Mulino «Icone - Pensare per immagini», curata da Massimo Cacciari, filosofo di vaglia, assai più interessante quando fa il suo mestiere di pensare i temi grandi, piuttosto che quando si applica alla politologia da salotto tv.
Molto bello il libro dello stesso Cacciari che apre la collana, «Generare Dio», che parte dall’osservazione di una Madonna di Mantegna.
Forte e importante anche il quarto libro della serie, di Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa, una coppia di voci che ci ha già regalato l’intenso «La vita non è il male», e che tornano, con «Croce e resurrezione», a emozionarci e a farci pensare.

Ciampa sta dalla parte della croce, estrema tristezza, suprema malinconia del mondo. Guarda diverse crocifissioni ma è colpito soprattutto da quella di Grünewald a Colmar: «Se non siamo al grado zero della Storia, non si può non guardare nel pozzo buio in cui è caduto il Cristo di Colmar, che attrae pensiero, e vuole pensiero».
Ecco, l’immagine - se contemplata con gli occhi profondi, interiori - non è solo un pugno nello stomaco, ma è una scossa mentale. «Non basta il desiderio di realismo - scrive Ciampa commentando quell’uomo in croce livido, deforme e sconvolgente - Grünewald voleva mettere tutto il dolore del mondo nel corpo di Cristo. Voleva che il suo Cristo ne fosse travolto, schiantato.

Voleva che quel corpo diventasse il grembo di tutti gli orrori».
Conclude la sua via delle croci, l’autore, confrontando due Cristi spagnoli: «Il Cristo di Santa Chiara di Palencia è un canto disperato, di “polvere e morte”, una indubitabile affermazione di nichilismo. Non è il Cristo di Velazquez che sta dentro la vita rinnovata». Sulle tracce di Unamuno contrappone così la terra nera al terso cielo spagnolo: e le immagini diventano teologia.
Ma il duello tra bene e male, tra luce e buio, non finisce sul Golgota. Per chi crede, e comunque per la storia dell’arte, c’è un capitolo successivo, un ricominciamento luminoso e scandaloso, chiamato «resurrezione».

Ai Risorti si dedica Caramore, nella seconda metà del libro. E tra i quadri che sceglie c’è un capolavoro di Rembrandt conservato a Parigi, «Cena in Emmaus» del 1629, dove alla tavola si distingue solo un uomo sconcertato, e, dentro un alone di luce che inonda la parete laterale della locanda, il profilo in ombra del Nazareno, inconfondibile eppure sfuggente, fantasmatico, risorto appunto in una terra di nessuno tra il mondo e l’aldilà.

Scrive Caramore, descrivendo quel piccolo quadro buio, olio su carta applicata su una tavola dal maestro olandese che vive ancora a Leida, prima della gloria di Amsterdam: «... è l’intimità del buio che sembra prevalere su ogni cosa. E tuttavia è proprio l’ombra di un improbabile fulgore che sembra dare significato al tutto. Il mondo è cieco. Non sa vedere. E sprofonda nella notte. Ma un piccolo bagliore di fiamma può, per un istante, illuminarne la verità».

Il Vangelo di Emmaus, ricorda l’autrice, conclude così la cena dei due discepoli prima sconfortati e poi ridestati alla speranza dall’incontro con il salvatore rinato: «Ma lui sparì dalla loro vista».
La resurrezione è un mistero troppo «oltre» per essere davvero compreso. Ed ecco che Rembrandt, in quell’ombra di Cristo, riesce a «rappresentare l’irrapresentabile».

Osserva Caramore che ai tempi del pittore i furori calvinisti contro le immagini sacre si erano placati e le scene bibliche erano tornate a raccontare, se non nelle chiese, nelle case, le storie sempre nuove della Scrittura, stupefacente catalogo del bene e del male del mondo.
Rembrandt si prende dunque questa libertà di raccontare e disvelare. Ma è con la luce sempre in bilico sul buio che racconta l’ambiguità della storia e le contraddizioni degli esseri umani.

Sono i tempi di Spinoza, Galileo e Cartesio, i tempi di Rembrandt, scrive Caramore che guarda e insieme pensa, ammira e contestualizza: «Quella piccola luce che splende nelle tenebre illumina le oscurità di tutto il secolo. Ma fa splendere anche di nuvovi bagliori le parole delle Scritture, strappandole a letture asfittiche e spente e spalancando il gioco infinito delle interpretazioni».

Il gioco di questo piccolo grande libro è appunto il rimpallo leggero e profondo tra testo e immagine, tra visione e scrittura.
Cosicché anche la parola rivive e risorge, grazie al colore e al chiaroscuro della vita dipinta.

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