La bella Carta, muro anti-muri

La bella Carta, muro anti-muri

di Paolo Ghezzi

«Un muro maestro». Così Sandro Pertini definiva la Costituzione della Repubblica italiana, nel suo quarantesimo compleanno. «Un muro maestro della nostra convivenza nazionale: essa va attuata, e non discussa...» perché quel muro era cementato, come aveva detto Piero Calamandrei, con le lacrime e il sangue di chi aveva fatto la resistenza.
Era il gennaio 1988. Pertini scriveva agli italiani di Amsterdam che avevano intitolato un circolo di cultura al suo nome di partigiano-presidente.

Negli ultimi trent’anni, la nostra bellissima carta costituzionale - tra le più belle, se non la più bella, del mondo - è stata attuata così così, discussa moltissimo, modificata dagli uni e dagli altri, contestata e modernizzata. Non sempre con buoni risultati.
Per fortuna, nessuna maggioranza parlamentare ha avuto ancora l’ardire di toccare i primi 11 articoli fondamentali (il dodicesimo dei princìpi è sulla bandiera tricolore, che in fondo è un dettaglio). È rimasta un muro maestro contro i muri delle discriminazioni etniche, sociali, religiose, politiche.

E dunque, ora che compie 70 anni e potrebbe essere considerata un inservibile residuato storico come la stessa Resistenza antifascista, la bella Carta dichiara ancora che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, nonostante i tanti, troppi cittadini che un mestiere l’hanno perso o non l’hanno mai avuto.

Alla vigilia di una campagna elettorale che forse sarà la più velenosa e inconcludente della storia repubblicana, vale la pena di rileggerla, a scuola ma anche in famiglia, di tenerla per un po’ sul comodino, e di riassaporarla.

Va di moda la demagogia? La Carta ci dice che cos’è la democrazia. Imperversano i populisti, e lei ci ricorda che cos’è il popolo. Sovrano. Furoreggiano i giustizialismi e lei ci parla della giustizia. Per tutti. Trionfano gli interessi particolari, gli egoismi razzistici e i pregiudizi: lei ci parla dell’eguaglianza. Si perde tempo con i Savoia e i savoiardi? Lei è il pane della Repubblica.

Frutto miracoloso di un nobile compromesso tra cultura politica cattolica, socialcomunista, azionista e liberale, la Carta ci dà anche, settant’anni dopo, una bella lezione di stile e di essenzialità. Anche nella sua lingua italiana misurata e precisa.

Coetanea della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Carta repubblicana all’articolo 2 «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» e si preoccupa di renderli effettivi prescrivendo «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
E all’articolo 3 si impegna a rimuovere gli ostacoli che confinano la libertà e l’uguaglianza al regno dei princìpi cartacei, invece di farle diventare il reale pane quotidiano della convivenza sociale.
Carta da rileggere, dunque, proprio per sentirci obbligati ad esserne degni. Come da rileggere sono certi fondamentali dibattiti nell’assemblea costituente o le «spiegazioni» dei padri della patria antifascista e repubblicana.

Nel libretto «Da sudditi a cittadini» pubblicato qualche anno fa dall’istituto di istruzione «La Rosa Bianca» di Cavalese a cura di Francesco Pugliese, oltre al testo di Pertini ricordato all’inizio si possono leggere le parole di Piero Calamandrei che in poche righe danno il senso della Costituzione repubblicana: nata da chi è morto per «restituire all’Italia libertà e dignità», la Carta ha il compito di «tradurre in leggi chiare, stabili ed oneste» (che bel trio di aggettivi, che programma perfetto per i legislatori di ogni epoca) il sogno dei resistenti: «di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore».

Come dire, una Carta che ci insegna a farci carico della fatica degli altri. Sarebbe il compito della buona politica.

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