Mascagni, la memoria del partigiano forestiero

Mascagni, la memoria del partigiano forestiero

di Paolo Ghezzi

«Mi si dice che non essendo trentino non sono in grado di comprendere i problemi della provincia e delle sue popolazioni». È il novembre 1944, sesto inverno di guerra, e il ventisettenne Andrea Mascagni, pisano di San Miniato, nome da partigiano Fausto Corsi, è il rappresentante del Partito comunista nel Cln (Comitato di liberazione nazionale) di Trento.

Chi ne chiede la sostituzione, con garbo democristiano ma con marcato pregiudizio etnico, è Nilo Piccoli, cattolico e trentino purosangue, che sarà sindaco di Trento nel dopoguerra.
L’aquila di San Venceslao assegnata dalla presidenza del consiglio provinciale di Trento alla memoria di Andrea Mascagni a cent’anni dalla nascita - per i suoi grandi meriti resistenziali, sociali, politici, culturali, musicali - ha anche il sapore di un risarcimento per quello «schiaffo» trentinistico del 1944.

Un comunista, specie poco diffusa in Trentino, e per giunta un comunista toscano. Eppure uno che, per sopravvivere in clandestinità ricercatissimo dalla Gestapo, aveva conosciuto meglio degli autoctoni non pochi luoghi del Trentino: non solo le città di Trento e Bolzano, ma anche Predazzo, Cavalese e i boschi della val di Fiemme e della val Cadino dove agiva il più organizzato ma pur sempre esiguo gruppo partigiano; le rocce del Brenta sopra Molveno dove avevano nascosto, con l’aiuto di un aviatore americano, una stazione radio; il bunker-rifugio mimetizzato a passo San Giovanni presso Riva del Garda; Avio; Ponte Arche e il Lomaso; Spormaggiore e la Val di Non. Parecchi i trentini che, nonostante non fossero comunisti, aiutarono il Corsi a nascondersi.

In queste settimane in cui i notiziari ci forniscono svariati esempi di rigurgiti neofascisti, dal saluto romano a Marzabotto alla testata di Ostia, e una parte degli italiani rivalutano manganelli e razzismo mentre troppi europei (non solo a Varsavia) si riscoprono suprematisti e antisemiti, andrebbe riletta nelle scuole l’asciutta, antiretorica relazione di Mascagni-Corsi sulla sua storia partigiana (è pubblicata, insieme a parecchie altre, nel libro della Temi «Testimonianze» a cura di Vincenzo Calì e Paola Bernardi).

Mascagni, che è stato parlamentare e riformatore della musica e si è impegnato sempre in coerenza con la sua scelta del 1943, ci ricorda che il Trentino (e ancor meno l’Alto Adige-Sudtirolo, per evidenti ragioni storico-politiche) non ha fatto i conti, fino in fondo, né con la propria fragile ma eroica storia resistenziale né con i suoi rapporti col regime fascista. Non si è compresa, fino in fondo, la natura del totalitarismo. Il fascismo è stato visto, «riduttivamente, come disordine, improvvisazione, cattiva amministrazione, negazione di tradizioni e di libertà sostanzialmente marginali, ma fortemente radicate nell’animo della gente».

Invece il giovane Mascagni, nato l’anno della rivoluzione bolscevica, aveva letto appassionatamente Marx, Lenin, Stalin e non voleva solo cacciare fascisti e nazisti ma cambiare il mondo.
Per questo ha rischiato la vita, nella resistenza. Per questo l’ha rischiata quella che diventerà sua moglie, Nella Lilli, classe 1921, un’altra non trentina (era alessandrina), arrestata due volte, che coraggiosamente resistette (rimettendoci l’udito) agli interrogatori dei volonterosi carnefici dei dittatori. Nel libro «Testimonianze» non poteva mancare la sua voce. Le sue parole finali sembrano scritte per l’oggi e andrebbero rilette da chi propaganda l’astensione dal voto come un bel gesto politico di protesta contro «i partiti che fanno tutti egualmente schifo».

Fu «un’esperienza - la resistenza - che consente di rivolgere un ammonimento a chi disprezza la politica e che in effetti la subisce. A costoro diciamo: partecipate al confronto delle idee, diversamente sarà la politica di pochi, una cattiva politica, che si occuperà di voi. Quando ve ne accorgerete sarà troppo tardi».

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