Mister Tamburino le parole del vento

di Paolo Ghezzi

Dylaniani? O addirittura «dylaniati», colpiti al cuore e un po' lacerati da Robert Allen Zimmerman da Duluth, Minnesota. E allora perché non «dylanconici» vista la faccia un po' così, con le sue belle rughe amare, del poeta cantore? Domenica sera, alla serata «dylanogica» al Teatro Ristori di Verona (idea di Enrico De Angelis in un ciclo pensato da Sergio Noto) conclusa da una collettiva, allegra, tambureggiante «Mr. Tambourine Man», Shel Shapiro, Deborah Kooperman, i Fondazione Lebowski e Tito Schipa junior hanno cantato e detto, in americano e in italiano, parole così forti giuste e «dylanianti» che non possiamo non concludere, un anno dopo: il Nobel per la letteratura, mister Bob Dylan, te lo sei meritato.
Rotolando nelle nostre vite «like a rolling stone», come un sasso che rotola, come uno hobo, un vagabondo con bisaccia e chitarra a tracolla, che salta abusivo sui treni merci, con la ruvida miscela di rabbia raucedine e dolcezza nella voce, come gli ha insegnato il suo maestro Woody Guthrie.

L'hanno dato al gran commediante Fo, il Nobel, ci stava eccome anche il premio al gran «cantanarrante» Dylan. La letteratura entra nel pop, nella radio e nella televisione, il corpo dell'attore-autore fa parte del rito, il mezzo è anche il messaggio, la canzone (poesia con la voce) crea e scolpisce - come il nuovo cinema e la pop art - i miti irregolari della contemporaneità.
Bob Dylan - autore di testi coloratissimi e acrobatici, tra sacra scrittura, strada sporca, suoni squassati e sogni surreali - è un poeta che convince anche nelle versioni italiane. Soprattutto se sono come quelle di Schipa, rutilanti liberissime ma fedelissime allo spirito e alla visione, come nel «115° sogno di Bob Dylan»: «Va be' la chiamo America - annuncio mentre scendo - respiro a pieni alveoli e stramazzo boccheggiando. Capitan Achab tira fuori qualche foglio protocollo e fa: preparate le berline e aspettiamo il primo bollo. E invece ecco due vigili in paranoia nera: gli arpioni sono armi improprie!, e ci sbattono in galera».

La grandezza di Dylan sta nell'aver compreso che, partendo dalla musica dei perdenti - il folk e il blues - poteva guidare il Sessantotto della musica dando voce a una nuova profezia politico-artistica contro l'incubo nucleare e tutte le altre follie della sedicente civiltà: «Ho incontrato un bambino accanto a un cavallino morto,/ Un uomo bianco che portava a spasso un cane nero,/ Ho incontrato una ragazza col corpo che bruciava,/ Ho incontrato una bambina che mi ha dato un arcobaleno... E una dura pioggia cadrà».
Da «Proletari di tutto il mondo unitevi» a «I tempi stanno cambiando», Dylan ha saputo essere il rivoluzionario ma anche il sognatore anarchico e una specie di terrestre messia della «risposta che soffia nel vento».
Gli bastavano quattro versi, per aprirci ai quattro venti. Versi come questi da «Farewell Angelina»: «Guarda i pirati strabici appollaiati al sole/ mentre sparano ai barattoli/ con un fucile a canne mozze». I «padroni della guerra» diventano subito tragici buffoni, di fronte a queste mitragliate di parole fantastiche.

E pensare che il ragazzo Zimmerman ha rubato il nome a un poeta gallese morto ancor giovane quando lui era ragazzino, Dylan Thomas. Che scriveva, per esempio: «E morte non avrà dominio./
Sotto i gorghi del mare/ Giacendo a lungo non moriranno nel vento.../ E l'unicorno del peccato li passerà da parte a parte;/ Strappati da ogni lato non si spaccheranno/ E morte non avrà dominio».
Bob Dylan l'elettrico, l'eclettico, l'eretico, ancora caracollante come un cowboy ultrasettantenne, ha trovato migliaia di parole giuste per esorcizzare la paura di morire. Ma prima ancora quella di vivere.

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