Se i pastori mancano all'appello

Se i pastori mancano all'appello

di Paolo Ghezzi

La notizia è stata gridata in prima pagina da Le Figaro, sabato scorso: quest’anno in Francia saranno ordinati appena 84 sacerdoti diocesani, 84 in tutta la Francia quando i 100 parevano la soglia minima di sopravvivenza nel Duemila, e di questi ben un quarto sono «tradi», cioè provenienti da movimenti tradizionalisti, lefebvriani restauratori del Concilio di Trento, appassionati delle messe in latino. Liturgie tornate molto di moda soprattutto a Parigi; in tutta la Francia, si celebra in latino in 230 chiese, 100 in più negli ultimi 10 anni.

Dal punto di vista cattolico la tendenza conferma il calo inarrestabile delle vocazioni, o meglio, delle risposte alla vocazione: visto che un credente non può pensare che Dio abbia smesso di chiamare. Ma se il rumore di fondo è troppo alto, anche una voce che viene dall’alto ha poca possibilità di essere udita.

Difficile che la Chiesa cattolica possa resistere a lungo senza pensare di aprire la professione sacerdotale agli uomini sposati (come fanno i pur tradizionalisti ortodossi oltre ai protestanti) e alle donne: che, nelle Chiese riformate, sono già addirittura «vescove». Come potranno, i successori di papa Francesco, continuare a dire alle donne che si limitino a fare le catechiste o le sagrestane con il non irresistibile argomento che i dodici apostoli erano tutti maschi?

Se il superamento del celibato obbligatorio potrebbe evitare la scomparsa del clero, viene da chiedersi se eviterebbe lo spopolamento delle chiese. Nonostante la ventata di giovinezza che spira dal papato Bergoglio, in quasi tutta Europa (forse l’unica eccezione rimane la Polonia) le assemblee domenicali sono sempre più vecchie, stanche, raduni di reduci e sopravvissuti che ascoltano un’antica Parola, sempre attuale e rivoluzionaria ma abbandonata dalla stragrande maggioranza dei giovani, che non comprendono più quella «lingua».

I pastori o i pope sposati e le donne vescovo non sembrano di grado di invertire, da soli, la tendenza. Perché qui il problema diventa socioculturale: in un mondo dominato dalle reti, in cui ciascuno ha la sensazione di essere in grado di gestire direttamente il proprio pensiero e le proprie azioni, a che cosa mai servono i mediatori?

Così come si può, da casa propria, prenotare un aereo senza passare dall’agente di viaggio o comprare un integratore alimentare senza passare dal farmacista o vedere un appartamento senza bisogno dell’agenzia immobiliare o prenotare dodici bottiglie di Barolo senza andare in Piemonte a conoscere il viticoltore o pensare di sapere tutte le notizie importanti del mondo senza l’aiuto dei giornalisti, perché i preti dovrebbero fare eccezione? Sono tempi duri per gli intermediari, quando tutti sembrano convinti di avere in tasca le chiavi d’accesso al mondo intero, incluso l’eventuale aldilà.

Non sorprende che gli uomini ordinati dalla Chiesa più antica, i super-parroci che anche in Trentino saltano tra 11 o 19 parrocchie (sommando 11 o 19 solitudini perché non hanno più il riconoscimento sociale che un tempo alleviava la frustrazione della vita solitaria) siano ormai chiamati quasi solo a celebrare i funerali, perché la morte è l’unica cosa che non abbiamo ancora imparato a gestire bene con i social.

Il ritorno al «tradi», alle tonache lunghe, al fascino misterioso di una lingua mai davvero morta come  il latino - fenomeni che si osservano oggi nella laicissima Francia - possono essere reazioni alla delegittimazione sociale dei preti, inversamente proporzionale alla popolarità del loro capo biancovestito, ma certo non saranno la soluzione.

Una spiritualità gestita in privato, decontestualizzata dalla comunità, è molto più in linea con lo spirito dei tempi. Certo, se i nuovi preti di oggi assomigliassero ai don Mazzolari e ai don Milani rivalutati dal papa, o - per rimanere in Francia - al curato di campagna di Bernanos, o all’Abbè Pierre o a Charles de Foucauld o ai monaci martiri dell’Atlante algerino, ne basterebbero e avanzerebbero 84, per «incendiare» di fede non solo la Francia ma tutta Europa.

Il problema è che la radicalità evangelica e la genialità comunicativa non sono la regola ma l’eccezione: e quando i numeri sono scarsi, le eccezioni sono ancora più rare.

Che il nuovo arcivescovo di Milano (un altro ex vicario «promosso in sede» come è accaduto a Trento) si sia attribuito - con modestia e senso dell’humor - un profilo di «mediocrità» è certamente un segnale di umiltà ma suona anche come una resa involontaria a tempi grigi, in cui le grandi figure alla Carlo Maria Martini o alla Giovanni Battista Montini sembrano fantasmi di un lontano passato irrecuperabile, calibri non più riproducibili.

Ma senza cavalli purosangue, in politica nella cultura e nei territori del sacro, resta solo il piccolo trotto, il passo stanco, l’incedere di un gregge sempre più sparuto che per camminare si affida ai navigatori satellitari ma non sa più - per ribaltare la metafora di papa Francesco - che odore ha un vero pastore.

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