Il naturale dentro del gran Guercino

Il naturale dentrodel gran Guercino

di Paolo Ghezzi

Sarà pure stato Guercino, un po' strabico, il gran pittore Giovanni Francesco Barbieri (Cento 1591 - Bologna 1666) ma come vedeva bene i volti intensi, gli occhi profondi e a volte inquietanti, che sapeva raccontare. Fino al 4 giugno, a Piacenza, è possibile vedere il Guercino da vicino.

Come mai è stato visto prima. Non solo ingaggiando un faccia a faccia con i grandi quadri di Palazzo Farnese ma anche salendo sulle scale e sull'impalcatura di legno che, nel duomo di Piacenza, ti porta a tu per tu - a pochi metri, per pochi preziosi minuti illuminati - con lo straordinario ciclo degli affreschi che il Guercino dipinse, con stupefacente rapidità di esecuzione (ben restituita dalla ricostruzione virtuale a schermo panoramico) tra il 1626 e il 1627: episodi dell'infanzia di Gesù tra pastori e angeli, sei profeti (da Aggeo a Geremia) e otto Sibille.
«Purché vi sia il naturale dentro, ogn'uno è padrone della sua maniera» scrisse lo storico dell'arte Carlo Cesare Malvasia nel 1678, in «Felsina pittrice. Vite de' pittori bolognesi». E il «naturale dentro», nel Guercino, pulsa sanguigno, incrociando sacro e profano nella concretezza della carne, dei muscoli, delle barbe e degli sguardi.

Tanto che perfino il suo Padreterno che, accanto al Figlio e alla colomba dello Spirito, guarda un po' di sbieco un po' nel vuoto, tenendo la mano sinistra sul globo del mondo, sembra un vecchio stanco e un po' scettico, disilluso sulle sorti della sua creazione.
Umanissimo. Perplesso come un essere umano.

E l'angelo che indica il libro sacro a un San Matteo semisdraiato, provato fisicamente dal «corpo a corpo» con il Vangelo, sembra un giovane che sfida un vecchio, un corpo vigoroso seppur alato, che scuote le membra dell'anziano evangelista.
Ammirata la perfezione della Susanna e della Cleopatra della mostra piacentina (le donne e le Madonne del Guercino sono forse più idealizzate e «classiche» dei suoi uomini agitati), verrà voglia allora di rivisitare una composizione straordinaria: il Figliol prodigo al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Ci sono tre figure, da sinistra a destra, su uno sfondo scuro: il figlio perduto e ora ritrovato, il padre disperato e ora rinato, un servitore molto elegante.

Nessuno dei tre guarda gli altri, perché i loro occhi sono concentrati sui vestiti: quelli, laceri e sporchi, che si sta togliendo il figlio; quelli, fragranti e fastosi, che il servo porge al padre affinché il figlio sia rivestito e pronto per la festa.

L'aspetto più meraviglioso di questo capolavoro è però nell'intreccio delle mani e delle braccia. Partendo da sinistra, vediamo: la mano destra del padre che abbraccia la schiena nuda del figlio, le braccia del figlio - lunghe e pallide - che si sfila la camicia logora, e infine la sinistra del padre che si incrocia con la sinistra del servo, che regge i panni nuovi, la blusa, la giacca. Perché il padre è impaziente di rivedere il figlio vestito con la dignità che ha bruciato nell'esilio, sperperando il denaro di famiglia, perduto tra la perduta gente.

La grande parabola è stata tradizionalmente intitolata al figlio dissoluto e dissipatore, con una sottolineatura moralistica dei suoi gravi peccati. Negli anni recenti, invece, grazie anche alla «linea» di papa Francesco, è emersa nella sua grandezza la misericordia del padre (non compresa, anzi osteggiata) dall'altro figlio-bravo ragazzo. Se non giudichi, se non chiedi conto, se accogli e basta perché un figlio, il figlio perduto, è tornato, c'è solo l'urgenza di fare festa, con i vestiti buoni.
Perché dal buio dell'oblio è riemerso non un fantasma, ma un corpo vivo, affamato, reale. Un uomo. E l'altro uomo, il padre, può solo abbracciarlo. Con pudore. Senza ostentazione.
Come si fa tra padri e figli. Oggi come quattro secoli fa. Come il Guercino, col «naturale dentro», naturalmente sapeva.

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