Il pane e le pietre nella città della pace

Il pane e le pietre nella città della pace

di Paolo Ghezzi

All’amico Giovanni C., il cardinale Martini, che dopo Milano aveva scelto Gerusalemme, disse un giorno: puoi anche saltare la terra santa, ma alla città santa devi venire, una volta nella vita. E non vale solo per i cristiani, che vi cercano le tracce della santità di Gesù. «Al Quds», «la santa», la chiamano i musulmani. Per gli ebrei, è la città del re Davide e del tempio (perduto) di Salomone suo figlio. E di ciò che ne resta, il muro occidentale presso cui piangere, pregare, lasciare intenzioni e biglietti tra le pietre. Le pietre, appunto. Il problema di Gerusalemme è che nessuna città al mondo ha così tante pietre, sante per tutte e tre le grandi religioni monoteiste (e non solo). Se hai la fortuna di andarci con una guida come il noneso cosmopolita Luigi Sandri, che da Gerusalemme ha fatto il corrispondente e le ha dedicato un libro fondamentale, sulla «città santa e lacerata», capisci subito che è blasfemo - se sei un credente - andare a venerare pietre su cui per troppi secoli i diversamente credenti si sono reciprocamente scannati.

Meglio andare a cercare, come si fa nei viaggi-confronti, le pietre vive degli ebrei, dei cristiani, degli islamici di oggi, che a Gerusalemme e intorno alla città santa vivono una vita senza pace: un paradosso per la città che prefigura la Sion dei cieli, regno dell’eterna pace.
Sullo sfondo, il «peccato originale» ma recente dello Stato sionista, dei territori rubati agli arabi, delle colonie di ebrei importati imposte ai palestinesi - popolo senza Stato e senza libertà -, di un odio tra cugini così vicini (ebrei nipoti di Abramo e figli di Isacco, musulmani nipoti dello stesso Abramo e figli dell’altro suo figlio Ismaele) e così lontani, un odio che non sembra sradicabile. Sullo sfondo uno Stato che vorrebbe esserci ma non c’è (la Palestina) e uno che c’è, una democrazia fondata sulle forze armate, a cui quasi tutti i vicini-nemici (tranne Egitto e Giordania) negano la pace e il diritto all’esistenza.

In mezzo, una città troppo santa per essere solo umana e troppo umana per essere santa; una città divisa e rivendicata da tutti, che meriterebbe davvero uno status internazionale di «santa-al-di-sopra-delle-religioni», dopo un accordo internazionale che spartisca la terra tra i due Stati e i due popoli, togliendo gli argomenti alle anime della violenza contrapposta: all’arroganza della destra israeliana e al fanatismo dell’estremismo palestinese.
Un camion assassino a Gerusalemme (come quello che domenica scorsa, guidato da un ventottenne palestinese, Fadi, ha falciato le vite di tre ragazze, Yael Shir Shira, e di un ragazzo, Erez, militari israeliani in uscita, poco più che ventenni) è certo più «spiegabile» di un camion killer a Berlino o a Nizza: sempre ammettendo che la sociopolitica - le provocazioni di Netanyahu, i nuovi insediamenti ebraici illegali a Gerusalemme est condannati dall’Onu, ecc. - possa spiegare l’odio infinito; il che peraltro è smentito dalle vite normali e borghesi e integrate di molti killer suicidi nel nome di Allah. Ad ogni latitudine.
Ma è un camion-bomba simbolicamente molto più devastante, perché torna a uccidere l’idea che ci possa mai essere - come profetizzava il Salmo 122 - «pace per Gerusalemme», che vuol dire «pace per l’umanità».

Il paradosso di quella città sui colli (sì, come Roma, ma con un cielo più grande e più santo di Roma) è di essere «la città della pace che non ha mai pace», scriveva il biblista ed ebraista Paolo De Benedetti, che da poche settimane è approdato alla Gerusalemme celeste e avrà finalmente compreso ciò che ai nostri occhi resta velato.

È il paradosso di una terra che i credenti di ogni tradizione pensano come un dono di Dio, un Eden lasciatoci in eredità, ma che gli stessi figli di Dio si sono specializzati a trasformare in inferno. Grazie ai loro cuori induriti come pietre, come le pietre sante che calpestano, che si tirano addosso, che si disputano nell’eterna follia della pace eternamente negata. Una pace che chiamano quasi allo stesso modo (shalom, salam) ma che resta secolare pietra d’inciampo e di scandalo, senza mai diventare pane quotidiano.


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