Quei tre fratelli neri con una grande coda

Quei tre fratelli neri con una grande coda

di Paolo Ghezzi

Tre. L’uno a fianco dell’altro, in obliquo sul palco. Tutti e tre lucidi. Tutti e tre neri. Tutti e tre con la pelle di legno e un’anima meccanica e uno scheletro di ghisa. Tutti e tre Steinway. Anzi, Steinway & Sons.

Bella l’idea del presidente della Filarmonica Lorenzo Arnoldi e del direttore artistico Antonio Carlini, di offrire al pubblico una vera e propria serata battesimale per l’ultimo pianoforte Steinway scelto ad Amburgo tra nove fratelli solo apparentemente identici. Perché ogni pianoforte - a differenza dei telefoni cellulari - ha la sua storia, la sua anima e la sua voce. E il musicista che ci mette su le mani, su quella magica sequenza di tasti bianchi e tasti neri, riesce a percepirne le più sottili differenze. I colori. Le vibrazioni. L’umore profondo.

Il nuovo arrivato - modello D, numero di matricola 603238 - in mezzo ai due fratelli maggiori, lo Steinway del 1951 e lo Steinway del 1984, entrambi restaurati di recente - risaltava soprattutto, agli occhi dei profani, per i suoi «piedi» scintillanti, le ruote dorate che risplendevano, colpite dalle luci, sotto l’ombra nera ma anch’essa brillante delle gran code.

Poi, il pianista Francesco Maria Moncher, primo dei tre giovani musicisti che hanno fatto apprezzare al pubblico i diversi colori dei tre fratelli neri, ha eseguito tre piccoli estratti da Bach, Beethoven e Chopin su ciascuno dei tre Steinway, in sequenze diverse, lasciando agli ascoltatori attenti il compito di decidere qual era il loro Steinway preferito.

La prima esecuzione di una composizione inedita di Roberto Di Marino, espressamente commissionata dalla Filarmonica per l’occasione - Moncher allo Steinway più anziano, Antonio Maria Fracchetti al nuovo venuto, Gabriele Iorio al terzo - ha completato il ricco assaggio solistico, poi concluso da un pezzo della Piccola Orchestra Lumière di Nicola Segatta.
Un bel modo di presentare alla città uno strumento che «costa come un miniappartamento» (parola di Arnoldi; oltre 120mila euro), che è stato in parte pagato dalla comunità (attraverso il contributo della Provincia) e che alla comunità è destinato.

Non c’è da meravigliarsi che abbiano voci diverse i fratelli neri; o bianconeri, se ci si ferma alla tastiera: «ebony and ivory live together in perfect harmony», cantava Stevie Wonder, «ebano e avorio vivono insieme in perfetta armonia, perché noi due invece no?».
Sagoma stagionata per otto settimane, l’80% del lavoro ancora manuale, nelle fabbriche di New York e Amburgo, 19 mesi per far nascere un nuovo neonato pianoforte, ogni Steinway ha la sua voce e, pur nella garanzia della massima qualità possibile, le sue caratteristiche. Stevie Wonder non è Ray Charles, Prince non è Muddy Waters e lo Steinway del 2016 non è lo Steinway del 1951 (quello che rimarrà in Filarmonica; per il terzo non c’è posto, per cui sarà adottato da qualche altra famiglia musicale).

Agli ascoltatori ammirati dell’arte di chi sa mettere le mani su quelle perfette tastiere e raccontarci antiche e nuove armonie, consonanze e dissonanze, rimane il mistero di come i «filarmonici» di Trento abbiano fatto a scegliere lo Steinway giusto, in poche ore lassù ad Amburgo: nobile città di mare e commerci, di scrittori e guerrieri, dello Spiegel e dell’Elba, cantata come una donna irresistibile e perduta dalla voce profonda del reduce sconfitto Wolfgang Borchert, città di terra e di fiume, della gabbianella e del gatto, che ospitò il primo live dei Beatles e ha dato i natali alla squadra più comunista del mondo, quella del quartiere a luci rosse di St. Pauli.

Come abbiano fatto a scegliere, tra nove fratelli neri dalla bocca bianconera e dalla gran coda di 274 centimetri, il D 603238 che adesso canterà per i frequentatori di una Società che ha 221 anni di vita e non ha smesso di emozionarsi per le due mani che corrono su 88 tasti. E raccontano il bianco e il nero delle nostre esistenze.

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