La corsa dei colori e la luce di Goethe

di Paolo Ghezzi

The Color Run, wow, è un mix di entertainment e business. Siccome vogliamo opporci all’anglofilia, traduciamo: la corsa del colore, ohibò, è un misto di affari e allegria. Gli organizzatori fanno i soldi, i partecipanti paganti se la spassano. Chi la corre, come sabato scorso a Trento, per qualche ora, allegramente e pazzamente insozzato dai colori dell’arcobaleno, dimentica le grane, le tasse, le multe, la sciatica, la crisi e la malinconia: padri che ridiventano bambini, nonni che tornano nipotini, quarantaquattrenni che si riscoprono quattordicenni, suocere che fraternizzano con le nuore in mezzo a torme festanti e giocose di adolescenti arlecchinati.

La linea di abbigliamento United Colors of Benetton ha aperto la strada allo sfruttamento commerciale del multiculturalismo, innestandosi sul percorso colorato aperto dalla cultura hippy dei tardi anni Sessanta: il musical «Hair» (riproposto all’auditorium l’altra domenica, con ringiovanimento temporaneo di sessantenni ben in carne sul palcoscenico, per il bis finale sulle note di «Let the sunshine in») testimonia l’esplosione dei colori dei vestiti, parallela a quella delle capigliature, che si ribellava soprattutto a due culture monocromatiche: il grigioblu della politica e della burocrazia, il grigioverde del militarismo.

Il filone giovanile trainante del Sessantotto in Italia era in realtà altrettanto monocolore o al massimo bicromatico: il rosso delle bandiere dell’arcipelago comunista, sorretto dal verde dei giacconi («portavo allora un eskimo innocente, dettato solo dalla povertà», canterà Guccini), politica e sobrietà estetica, senza febbre gialla, senza il blu del blues, senza divagazioni arancioni da Hare Krishna.
Il successo travolgente del multicromatismo della Color Run, in questo senso, è la certificazione definitiva della fine delle ideologie e del predominio del pensiero unico del «fun»: la partecipazione alle elezioni precipita sotto il 50% ma esplode la mania dei nuovi riti di massa, epigoni spensierati e totalmente spoliticizzati dei cortei plumbei degli anni di piombo.

Il vescovo-giornalista Bregantini, l’altro sabato al Vigilianum, raccomandava ai giornalisti ciò che i manuali anglosassoni fortemente sconsigliano: di usare gli aggettivi, che danno il sapore dell’empatia a un articolo.
In realtà, un uso misurato ma sapiente degli aggettivi (e degli avverbi) connota uno stile, conquista i lettori: non di solo pane, verbi e sostantivi vive l’uomo.

I colori servono per aggettivare e dunque per colorare la scrittura. Soprattutto la poesia. Dire «rosso» è dire poco: si tratta di un cremisi, di un carminio, di un bordò, di un vermiglio, di un magenta, di un rubino, di un porpora, di un amaranto?
Il sommo poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe avrebbe voluto conquistare la fama come scienziato cromatico. Nella Teoria dei colori che pubblicò nel 1810 a Tubinga, contestando Newton, sostiene che non è la luce a scaturire dai colori, bensì il contrario; i colori non sono «primari», ma consistono in una variazione della luce: «Il giallo è una luce che è stata attenuata dalle tenebre; il blu è un’oscurità indebolita dalla luce».

Il giallo e il blu sono quindi i due colori primari. Al giallo, principio del chiaro, Goethe assegna il polo positivo; al blu, principio dello scuro, attribuisce il polo negativo.

Non sorprende che JWG, scendendo sul Garda nel suo viaggio in Italia, sia rimasto abbagliato dal giallo dei limoni sul lago, più che dal grigio della città di Trento. Chissà che cosa avrebbe detto nel vedere la città gialloblù trasformata nel delirio arcobaleno di un popolo in maglietta bianca e braghette corte.

Senza diventare grigi come gli snob che deplorano la corsa dei colori, non accettando che il popolo abbia il diritto di divertirsi, segnaliamo che in salita Sodegerio da Tito, zona Cervara (lassù la Color Run non è passata) il comitato per la liberazione della poesia ha attaccato questi versi, intitolati «Poetessa solitaria», che resistono eroicamente alla pioggia e all’indifferenza dei passanti: «Per caso/ ti ho vista/ un giorno./ Illuminata dal sole/ al tramonto. / A testa bassa/ splendevi/ tra una folla in bianco e nero».
Anche un foglietto lacero può illuminare un muro di luce calda, del colore inesauribile e inafferrabile delle parole.

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