Il Trentino redento assediato dalle feste e dalla fame

Il Trentino redento assediato dalle feste e dalla fame

di Luigi Sardi

Alla fine del dicembre 1918 nel Regno d’Italia era cessata la produzione di cannoni, esplosivi, mitragliatrici, fucili e di colpo migliaia di lavoratori, soprattutto donne, erano stati licenziati. A Terni, Torino, Genova, Napoli, Brescia, Milano le grandi fabbriche vocate alla produzione  di armi avevano, o chiuso i cancelli o ridotto al minimo la produzione che nella primavera del Diciotto aveva raggiunto punte impressionanti. Nelle filande di Como il lavoro venne ridotto al minimo e centinaia di giovani donne si erano trovate con una miseranda liquidazione, un Tricolore come regalo, senza uno stipendio ma con la consapevolezza che le loro fatiche, le loro rinunce avevano contribuito ad evitare il naufragio della Patria. Avevano cominciato a capire l’importanza della donna mentre tornavano nelle loro case adesso riscaldate con il carbone arrivato dall’ Inghilterra. Molte di loro avevano imparato a guidare i camion Fiat 18 Bl, a manovrare i macchinari della tessitura e delle officine, far funzionare i torni, le presse, le caldaie a vapore o benzina. Moltissime erano diventate infermiere, oppure sapevano guidare i tram. Facevano le postine, usavano il telegrafo, operavano nelle centraline telefoniche e in tante avrebbero voluto guidare i treni o pilotare gli aeroplani e una di loro, forse si chiamava Besana, era al timone, sul Lario, del battello “Patria” nella rotta Como, Lecco e ritorno. Certo, non c’era più un lavoro, il cibo era ancora razionato, gli ospedali erano pieni di feriti e malati, con la spagnola infuriava la difterite, i morti erano tanti, anzi tantissimi ma la guerra era finita e si poteva gioire.

Ottone Brentari aveva lasciato Milano per tornare nel Trentino trovandolo redento ma distrutto là dove era passata la guerra, impoverito come nei tempi bui dell’alluvione del 1882, con la popolazione decimata e dispersa. E, in molti luoghi, ancora affamata. Ecco la cronaca da Serravalle: “Questo comune era posto nella prima linea di combattimento… tutte le campagne furono abbandonate fin dal marzo del 1915; nel campi vennero scavati trinceramenti e il terreno era coperto da reticolati, sconvolti dalle cannonate, arso dagli incendi. Viti e piante vennero tagliate, ogni sostegno in legno strappato via e i famosi vigneti di Isera furono devastati e quelli che a mala pena si salvarono furono messi in ginocchio dalla mancanza di 5 anni di coltivazione. I boschi nelle immediate vicinanze del Monte Zugna erano stati distrutti perché il legname serviva per i mascheramenti, i sostegni delle trincee, la costruzione dei ricoveri. Nel 1914 a Serravalle c‘ erano 481 abitanti, la chiesa e 81 case. Lì quando Kamillo Ruggera ufficiale dell’Esercito austriaco si era presentato al Regio Esercito con la bandiera bianca era finita la guerra mondiale. Certo, il paese entrava nella storia ma era distrutto e i suoi abitanti dispersi dalla Sicilia alla Moravia. Poi i danni vennero calcolati con grande cura in 2.967.720 lire, una cifra enorme per quei tempi quando una copia di giornale costava 10 centesimi.

Brentari scriveva: “In Italia non c’è ancora la coscienza del disastro di cui fu vittima il Trentino. Molte persone andarono a Trento e limitarono la loro azione al solito invio di cartoline per far sapere a parenti e amici che si erano spinti nella città finalmente liberata. E questa era la frase di prammatica” vergata nel segno dell’entusiasmo risorgimentale. “Ma – continua Brentari – sono ancora poche le persone, e Dio le benedica, che si sono spinte non con semplice curiosità di turisti, nelle valli massacrate”. Poi Brentari raccontava – ma era già la tarda primavera del 1919 - che “molti giornali di Milano e di altre città hanno dato calorose relazioni, tutte vibranti di colori e di entusiasmo, della recente grande gita del Touring  Club nella Venezia Tridentina ( il Trentino aveva cambiato nome, nda). Ero nel Trentino durante tutte le recenti scorribande e potei così apprendere i veri sentimenti della popolazione di fronte a queste gite,che, per il novantanove per cento dei partecipanti, sono tutte esclusivamente a scopo di divertimento. Non basta andare lassù e portare l’affettuoso augurio e compiere il sacro rito. Andate in Valsugana, a Terragnolo, nella Vallarsa, in val di Gresta, a Bentonico e sentirete il coro: perché a Trento e a Bolzano si continuano le feste mente noi manchiamo di tutto? Ci sono nel Trentino 150 paesi o contrade  distrutte; migliaia di persone dormono ancora sul nudo terreno e centinai di orfani di guerra e poveri bambini sono abbandonati. Scarseggiano le baracche e le poche non sono tutte buone. Scarseggiano o mancano del tutto la biancheria, le stoviglie, i mobili. Abbondano invece la dissenteria, il tifo e le altre malattie”.

Nel Regno d’Italia continuavano i festeggiamenti senza rendersi conto che la chiusura delle fabbriche d’armi, l’imminente congedo di milioni di soldati e la necessità di pagare le armi, il carbone, il petrolio, la benzina ricevuti da Francia, Inghilterra, Stati Uniti  avrebbe ro creato enormi problemi. Soprattutto con i congedandi che avevano conosciuto solo il mestiere delle armi, che arano stati allenati alla più brutale violenza, che minacciavano gli imboscati, cioè quelli che pur vestendo la divisa era stati lontani dalle trincee e i “grassi pescecane” cioè quei borghesi – e borghese era diventato parola di disprezzo – che s’erano enormemente arricchiti nel tempo della guerra.  L’Italia era un fermento: di feste per esaltare la vittoria. Di rivolta perché  i reduci stavano per scoprire che le promesse ascoltate nei giorni della trincea non potevano essere mantenute.

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