Tornano i profughi nel Trentino devastato

Tornano i profughi nel  Trentino devastato

di Luigi Sardi

È la fine del dicembre 1918 e il giornale «Il Nuovo Trentino» di Alcide Degasperi scriveva: «I profughi sono vivamente consigliati nel loro interesse, di ritardare il rimpatrio più che è possibile, perché molti paesi già evacuati sono completamente distrutti e i paesi abitabili sono talmente sovraccarichi di popolazione che l’aumento di essa è impossibile. Il rimpatrio, in queste condizioni, se non c’è una chiamata esplicita delle autorità che si curino dei profughi, riuscirà disastroso. Neppure il rimpatrio a Trento è consigliabile» perché è difficile trovare alloggio, il cibo è scarso e quanti hanno avuto parenti nell’esercito austriaco, sono visti male dagli irredentisti che, è nella logica degli eventi, si moltiplicano passando dalla parte dei vincitori.  Continua il giornale: «I profughi non si lascino trascinare dall’esempio di quelli che hanno tentato il rimpatrio perché questi hanno fatto a proprie spese un’esperienza dolorosa. I profughi” e sono migliaia, “stiano per intanto dove sono».

Distrutti i paesi là dove era passata la guerra e in ogni borgo le chiese sventrate, le scuole demolite, le stalle vuote, i campi e gli orti abbandonati, i boschi, i prati, i pascoli devastati dalla mitraglia. Un popolo in lutto per i parenti, gli amici, i familiari dispersi dalle rive del San a quelle dell’Isonzo e del Piave; con un’Italia che si dice sorella ma, spesso, è amara. Le bombe, gli incendi avevano sconvolto tutto, persino i cimiteri e non c’erano più i canti della gioventù a rallegrare le piazze dei paesi. Ma il Trentino si rialza e il primo segno arriva dalle pagine de Il Nuovo Trentino con la pubblicità del Sindacato Agricolo Industriale, oggi il Sait, ad annunciare «il riordino dei suoi uffici e magazzini di via Segantini» devastati dal saccheggio mentre cresce il numero dei necrologi a raccontare i lutti dettati dalla spagnola, dalla difterite, dalla tubercolosi e dalla pellagra. C’è sul giornale quello del cavaliere Francesco Gerloni deceduto l’11 febbraio del 1918 a Mottola presso Taranto, dove si era rifugiato dopo aver lasciato Trento nella primavera del Quindici.

Era il padre del farmacista Mario, titolare della celebre farmacia in piazza Duomo e che nei primi mesi del 1919 andò a Vienna ad intervistare il boia Lang, per farsi raccontare come giustiziò Cesare Battisti e Fabio Filzi.  C’è la notizia che «il vapore presidenziale George Washington è salpato da New York con a bordo il presidente Wilson, 75 ufficiali, 1049 marinai e una scorta di 74 fucilieri di marina» e da Chicago arriva la notizia che la signora Harlem ha querelato il Kaiser per l’assassinio di suo padre morto nell’affondamento del Lusitania, il transatlantico  inglese con a bordo passeggeri americani silurato da un sottomarino germanico al largo dell’Inghilterra.

Il Trentino riprende a vivere. Con nel cuore di molti la nostalgia per la patria per sempre perduta, con l’inverno crudo pieno di neve, di gelo, di sofferenze, di malattie. Dove manca il lavoro, ma dove ci si sposa. Basta sfogliare i registri delle parrocchie: il 1919 è l’anno dei matrimoni perché dopo quelli della strage, c’è voglia di tornare a vivere. E’ vero. I Carabinieri Reali avevano preso il posto degli antichi gendarmi che erano gli uomini del paese accanto mentre i militari dell’Arma arrivati da molto lontano, quasi sempre credendo di dover prestare servizio in territorio ancora nemico e di trovarsi fra gente ostile, non potevano vedere nei trentini che, pur di lingua italiana avevano indossato la divisa del nemico, i fratelli redenti. Però i 18 Bl del Regio Esercito trasportano viveri, indumenti, legname.

Si deve ricostruire, si deve fare in fretta sfidando l’inverno perché «di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro…» come recita Giuseppe Ungaretti in quella struggente poesia meglio conosciuta come «San Martino del Carso» e se si sfoglia il bel quaderno Rovine stampato a Strigno nel giugno del 2003 per raccontare la Grande Guerra nella Valsugana orientale, si capisce l’immensità dal disastro conseguente alla Inutile Strage documentata da Ottone Brentari.

Certo, Brentari nato appunto a Strigno nel 1852, conosceva bene il Trentino per averlo attraversato dalla Valsugana a Rovereto, Malè, Fondo e Cembra. Conosceva l’Impero e il Regno perché aveva studiato a Innsbruck, poi a Vienna quindi a Padova per andare ad insegnare in Istria a Pisino, quindi a Catania. Geografo, giornalista, fu un grande studioso del Trentino e un testimone di quell’epoca e, approdato a Milano al Corriere della Sera era diventato un fervente interventista fondando la Lega Nazionale Italiana. Finita la guerra s’incamminò nelle valli distrutte della sua terra per scrivere, tornato a Milano, articoli, lettere e tenere conferenze. La più famosa: L’allegra agonia del Trentino assieme agli articoli pubblicati sulle pagine de La Perseveranza, uno dei quotidiani stampato a Milano.

Queste le prime righe della cronaca del suo ritorno in Valsugana definita appunto dal Brentari «il cimitero del Trentino». Ecco «la povera Valsugana, già così prosperosa per la feracità del suolo, la bontà del clima, la ricchezza del suo carbone bianco e delle acque salutari di Roncegno e Levico e specialmente per la laboriosità e la parsimonia dei suoi abitanti». E’ l’inizio di un lungo viaggio: Carzano, Telve, Torcegno, Scurelle, Spera, Strigno con quella piazza che il 4 novembre del 1966 verrà devastata dall’alluvione, Samone, Bieno, Castel Tesino, Villa Agnedo, Ospedaletto, Grigno dove l’unico luogo ordinato è il cimitero militare con quella fila di croci che sembra non finire mai, Roncegno, Borgo, Olle. La documentazione fotografica mostra un impressionante cumulo di macerie identico da Vermiglio a Serravalle. Ma non c’era più il rombo del cannone. E in Europa si parlava di pace.

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