Grande Guerra: una storia a 100 dalla fine/10

Grande Guerra: una storia a 100 dalla fine/10

di Luigi Sardi

Acquaviva, Villa Fogazzaro. Ai piedi di un platano ecco gli ultimi austriaci uccisi dagli Arditi. Ci sono davvero pochi chilometri da una Trento affamata e saccheggiata ma pronta ad accogliere gli italiani mentre a Villa Giusti continuavano le trattative per la resa con il generale Pietro Badoglio attento, per guadagnare tempo, ai cavilli perché prima di firmare l’armistizio il Regio Esercito deve entrare, ovviamente vittorioso, nella città che da quel giorno si chiamerà redenta. Mentre si parlava di tregua, bersaglieri, arditi e truppe alpine avevano sfondato a Serravalle, avanzavano su Marco dove i soldati austriaci che non erano stati avvertiti della tregua, si difendono nel trincerone che ancora si vede.

Quella di Marco è l’ultima battaglia sanguinosa e inutile. Ad Acquaviva non c’era bisogno di sparare. L’avanzata italiana è una corsa in avanti raccontata dal capitano Livio Fiorio barone di San Cassiano, nato a Riva del Garda e preside fino al 1958 del Liceo Fabio Filzi, intervistato dal giornale L’Adige mezzo secolo fa. Narrò che a bordo di un Fiat 18 bl carico di Arditi seguiva una pattuglia di ufficiali montati su sidecar.

«All’altezza del platano che c’è subito dopo la grande Villa Fogazzaro, alcuni Arditi balzarono dal camion per disarmare un nucleo nemico, che non fece neppure in tempo a spianare le armi». Deve essere stata un’azione fulminea, l’ultima sul fronte trentino e nel 1958 quando si inaugurò a Serravalle il noto cippo che ricorda la bandiera bianca di Kamillo Ruggera da Segonzano, un contadino che abitava in quella zona raccontò di aver sentito dire che alcuni soldati austriaci erano stati uccisi ai piedi di quel platano e i loro corpi erano stati portati al cimitero di Mattarello.

«Poi – prosegue il racconto di Fiorio – null’altro successe ed entrammo in Mattarello formicolante di gente, fra cui alcuni soldati trentini senz’armi. Nella travolgente confusione ci fu detto che a Trento, dal giorno prima, funzionava già un governo provvisorio civile, cui il comando austriaco aveva affidato i compiti non militari. Ci fu detto che nella stazione del paese si stava per dare fuoco a depositi e magazzini. Scendemmo in fretta alla stazione per sventare il minaccioso pericolo e tornati in paese vedemmo sfilare le motocarrozzette di Pietro Calamandrei» che negli anni Veni diventerà  l’uomo di punta dell’antifascismo.

Mattarello era stato bombardato da un dirigibile italiano nella notte del 19 marzo 1918. Trenta bombe colpirono la stazione ferroviaria, l’orto di Sisinio Perini, danneggiarono la casa di Cassandra Tamanini, l’edificio dell’orfanotrofio uccidendo quattro malati nell’ospedale militare. Quel 3 novembre gli Arditi vennero rimandai nelle retrovie perché si era capito che ogni combattimento era finto;  gli alpini del maggiore Giovanni Faracovi che avevano guidato tutta l’avanzata si dovettero fermare a Stella di Man per far passare i cavalleggeri d’Alessandria: lo squadrone doveva entrare nella Trento liberata con le bandiere al vento e Fiorio racconta: «Dopo il ponte sulla Fersina e in modo particolare in via Belenzani, il colpo d’occhio degli innumerevoli piccoli tricolori esposti alle finestre e la festosità della folla davano un senso di commozione che non potrò mai dimenticare. Ma continuando per via San Marco poi per l’attuale piazza Mostra, lo spettacolo mutava quasi all’improvviso. Non più folle di cittadini, solo qualche rara bandiera alle finestre, ma militari disarmati e poi carriaggi a non finire. Era con noi un giovane trentino, Vittorio Anesi, che ci guidò in Piazza D’Armi (ora piazza Venezia, ndr) dove riuscimmo ad individuare un gruppo di soldati italiani prigionieri e ancora inquadrati fra la truppa nemica. Uno di noi portava un tricolore infilato nella canna del moschetto, i prigionieri italiani lo hanno veduto. Fu un attimo: rotte le righe si precipitarono verso di noi, si armarono con fucili austriaci e ci aiutarono a mantenere l’ordine. Vicino al Castello, all’altezza della fontanella, c’era un morto austriaco».

Arriva una compagnia di fanti, li comanda il sottotenente Sandro Pertini che in piazza delle Opere, oggi Piazza Pasi, schiera i suoi soldati e dice: «Vigilate ma comportatevi bene con le ragazze trentine, rispettate le proprietà dei civili, siate orgogliosi di essere italiani».

Poi Pertini ordinerà di distribuire tutto il cibo ai trentini affamati che s’ammassano vicino alla piazza. Ecco i cavalleggeri del Reggimento Alessandria entrare nell’albergo di Piazza Dante oggi sede della Provincia dove si trovavano gli ufficiali superiori. Tutti sono armati, scarsamente informati su quanto sta accadendo. Hanno solo sentito voci attorno ad una pace imminente ma non sanno cosa stia succedendo. Gli italiani capiscono che, entusiasmo a parte, sono davvero pochi, in mezzo all’esercito austriaco, circondati da uomini armati che odiano gli italiani e che presidiano una poderosa città-fortezza. Ma da quello che oggi è Corso 3 Novembre è una fiumana che si riversa in città. Militari, cittadini, bandiere attraversano il ponte che poi sarà chiamato «dei Cavalleggeri» mentre sulla torre del castello sale una grande bandiera italiana con lo stemma sabaudo. Ogni anno verrà issata – salvo il periodo dall’8 settembre del 1943 alla fine della guerra nel maggio del 1945 – a ricordare quella giornata. Certo la si dovrà issare sempre nel futuro. Però a mezz’asta. In segno di lutto. Nel ricordo e nel rispetto di quanti sui fronti della Grande Guerra soffrirono e morirono in quella che si dovrà ricordare come l’inutile strage.

(10/fine)

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