Grande Guerra: una storia a 100 anni dalla fine/8

Grande Guerra: una storia a 100 anni dalla fine/8

di Luigi Sardi

Era l’estate del 1946, nel Trentino trionfava l’Asar e in Valsugana, a Marter, erano in molti a raccontare storie attorno alla Grande Guerra che nell’epoca fascista non si potevano, di certo, narrare. Cosa era accaduto a Leopoli, sull’Ortigara, sugli Altipiani, in Galizia sulle rive del San e nel Veneto lungo le sponde dell’Isonzo e del Piave.

C’era un ferroviere che era stato nella stazione di Roncogno negli ultimi mesi di guerra a ricordare che a Civezzano, sul finire dell’ottobre del 1918, era arrivato un gruppo di militari inglesi che avevano occupato l’aeroporto del Cirè. O meglio: si erano accordati con i piloti austriaci che erano decollati con i loro aerei diretti a Innsbruck consegnando il campo agli inglesi. Non c’è traccia di documento a raccontare questa vicenda, solo un sentito dire, un racconto certo ripetuto più volte, diciamo quasi tramandato in quella breve epoca di speranze autonomiste che aveva permesso – dopo gli anni del fascismo – di parlare della guerra vista da chi l’aveva combattuta con un’altra divisa.

Poi si aggiunse un’altra storia: alcuni ufficiali inglesi erano stati accolti da ufficiali austriaci e da questi accompagnati a Trento nell’albergo di Piazza Dante ora sede della Provincia autonoma. Se questo fosse vero, sarebbero stati gli inglesi i primi ad entrare a Trento. Certamente gli inglesi non avevano il minimo interesse ad occupare Trento. Soprattutto loro non combattevano per “liberare” le città da redimere perché conducevano una guerra tesa soprattutto a distruggere i materiali del nemico. I loro obiettivi erano i ponti, gli aeroporti, fortificazioni, fabbriche.

Se entrarono in Trento – ma non c’è minima traccia che provi questo episodio, e se ci fosse stata,sarebbe stata cancellata dal fascismo che appellava l’Inghilterra “perfida Albione”– non pensarono di certo di togliere agli italiani lo scopo della loro guerra, né di assumersi l’incarico, davvero enorme, di rifornite e controllare una città in preda alla fame, all’anarchia, al disfacimento. Se arrivarono a Trento, tornarono a Civezzano dove, sia ben chiaro, non lasciarono la minima traccia. Né dagli archivi inglesi è mersa una simile notizia. Che però continua a galleggiare nell’immaginario collettivo.
All’improvviso, Trento piombò nel caos. Il primo segnale si ebbe in via Malpaga quando le case di tolleranza che s’affacciavano su quella via vennero chiuse e le “signorine” si rifugiarono in un convento di suore.

Di fronte all’incalzare degli eventi si era formato un Governo provvisorio che aveva fatto affiggere un manifesto, scritto solo in italiano, che invitava i cittadini alla calma. Ma non bastava un appello in una città in preda al caos. Masse di soldati sbandati, affamati e ancora armati cominciavano qua e là a saccheggiare e nel fascicolo “Il Trentino nella Grane Guerra” di Germano Poli si legge “che il saccheggio si estende ai magazzini delle caserme” dell’attuale via Perini, “a quelli collocati vicino alla stazione e sulla via per Gardolo. Al saccheggio prendono parte moltissimi cittadini, contadini arrivati dai villaggi e militari. Si porta via di tutto, dai camion agli oggetti più minuti di cancelleria e di chirurgia, dalle travi pesanti ai bottoni e agli aghi; si asporta la merce a braccia, a spalla, a carri. I militari che escono in massa dalle caserme, sono carichi oltre che dello zaino e del fucile, di pezze di tela bianca e colorata, di panno verde-grigio, di rotoli di corame, di fasci di scarpe, di monture nuove, di pellicce, di guanti… Il saccheggio a Trento non è un fatto isolato, ma si compie nello stesso tempo e con le stesse scene tragiche in tutta la zona di guerra: a Rovereto, Levico, Caldonazzo, Villazzano, Mattarello, Cadine, Vezzano, Riva, Tione, Pinzolo, Malè, Taio, Cles”.
Per  raccontare il saccheggio il giornalista Aldo Gorfer aveva pubblicato sul giornale “L’Adige” del 4 novembre 1968 la testimonianza di Riccardo Dorigatti che nel 1918 era un ragazzino e come tanti suoi coetanei si aggirava in città in quelle ore passate alla storia come “il rebalton”, per curiosità e per cercare qualche cosa da mangiare. “I soldati vuotano gli zaini sulla piazza della stazione abbandonando il corredo militare.

Da un cancello, balzò fuori, spinta da un gruppo di persone, una carretta carica di tabacco e sigarette che si capovolse. Ne approfittai subito per riempirmi le tasche di sigarette e non mi pareva vero di avviarmi verso i giardini con una sigarette fra i denti. Poi andai al magazzino del Sindacato Agricolo Industriale di via Segantini (l’attuale Sait, ndr). Per terra c’era una poltiglia di farina, marmellata e altre cose; le porte sfondate erano prese d’assalto dalla gente con un pigipigia tale che mi levò la voglia di tentare l’ingresso. Uomini curvi sotto sacchi di farina venivano fuori da quella bolgia, sballottati di qua e di là. Se il peso era soverchio, buttavano il sacco a terra, ne versavano il di più e se ne andavano col rimanente. Tutta quella grazia di Dio che il giorno prima sarebbe stata raccolta con le unghie, veniva calpestata senza riguardo.

Di tanto in tanto si sentiva la campana degli agonizzanti del Duomo che richiamava alla preghiera per i morti di spagnola, difterite, tubercolosi, ma in verità, nessuno in quei momenti pregava… in una rissa fra soldati e popolane rimasero uccise una giovane di 18 anni e una bambina. In piazza Dante prigionieri russi si scontravano con soldati austriaci e risse furibonde lasciavano qua e là dei cadaveri che nessuno raccoglieva. La sera, grandi falò tingevano di rosso il cielo della città e la scena del saccheggio continuava tra la baraonda generale”.

Di tanto in tanto, da qualche parte si sentiva gridare “i vegn, i vegn”. Dicevano che gli italiani erano già a Pergine, a Rovereto, a Mattarello. Passò un’ altra notte di ansia e paura; gli ufficiali austriaci si erano radunati nell’edifico di via Verdi, attuale sede della Filarmonica; altri erano nell’albergo di piazza Dante, molti accampati alla stazione in attesa che qualche militare macchinista mettesse in moto uno dei tanti malandati convogli fermi sui binari. Ma macchinisti e frenatori erano già partiti verso nord per non finire prigionieri degli italiani proprio negli ultimi giorni di guerra.

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