Grande Guerra: una storia a 100 anni dalla fine/6

Grande Guerra: una storia a 100 anni dalla fine/6

di Luigi Sardi

Sono le 7,45 di martedì 29 ottobre, il giorno che segnò la fine della Grande Guerra. Lungo la valle dell’Adige si annuncia una giornata livida, fredda, con la nebbia che sale dal greto del fiume per sfilacciarsi nella massa dei reticolati. Poco a Nord di Serravalle, negli avamposti italiani, le vedette avvolte nelle mantelline grigio-verde sono immobili. Protetti da scudi corazzati, da sacchetti di sabbia, scrutando davanti a loro la terra di nessuno, muovendo lentamente il fucile da destra a sinistra, come da regolamento. La notte, un’altra notte di guerra, era trascorsa tranquilla, senza uno sparo. I soliti razzi illuminanti di luce bianca, accecante, che trasformano tutto quello che c’è sul terreno in ombre lunghe, hanno solcato il cielo e la lama di luce dei riflettori ha indugiato sui consueti obiettivi.

Uno squillare di tromba si alza dalla prima linea austriaca dove si vede sventolare una grande bandiera bianca all’altezza del casello ferroviario T che, nonostante i combattimenti, è ancora ben visibile nel grigiore del paesaggio. In prima linea ci sono i fanti del II Battaglione del XXXVI Reggimento. Un sottotenente corre al più vicino telefono da campo per avvertire il colonnello Emanuele Nicolini; tutti i soldati sono usciti dai ricoveri. Certo, si era sentito dire che sul fronte francese si stava parlando di una tregua; erano voci raccolte nelle retrovie, come al solito incerte, ma quella tromba continua a suonale, la bandiera bianca sventola e sulla massicciata della linea ferroviaria si vedono benissimo sei figure: il trombettiere, il soldato con la bandiera bianca, un altro con un berretto alto, da ufficiale. Sono tutti disarmati.

Un mitragliere italiano apre il fuoco; uno dei sei austriaci che avanza sotto la protezione della bandiera bianca è ferito, gli altri si sono buttati a terra però la tromba continua a suonare, si capisce che il trombettiere insiste sulle note della ritirata. L’ordine è tassativo: cessare il fuoco, portare tutti gli uomini linea ed ecco l’ufficiale austriaco avanzare tenendo alta sopra la testa una cartella di cuoio, segno evidente che aveva il compito di portare nelle linee italiane un messaggio di rilevante importanza.

Quell’ufficiale era Kamillo Ruggera nato a Predazzo il 27 agosto del 1885. Giovanissimo, era entrato nel collegio militare di Innsbruck, in Galizia aveva partecipato alle feroci battaglie contro i russi, nel 1916 era divento ufficiale di Stato Maggiore e dopo la guerra si trasferirà a Vienna. Convinto assertore dell’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1940 verrà nominato da Adolf Hitler comandante della Flak, l’artiglieria contraerea del Reich. Morì a Holf in Baviera il 29 gennaio del 1947. I libri di storia lo indicano come l’ufficiale fotografato fra i binari ma l’uomo ritratto in quell’istantanea, il primo documento fotografico che fissa l’attimo della la fine della Grande Guerra, è il colonnello di stato maggiore Karl Schneller arrivato a Serravalle il giorno dopo Ruggera. Gli andò incontro il capitano Giuseppe Franchini, delle Brigata Pistoia. Ruggera e Franchini si salutano militarmente, Ruggera dichiara di essere latore di una lettera del generale Victor Weber Edler von Webenau incaricato di trattare un armistizio.

Il capitano Franchini precedete Ruggera in un varco aperto fra i cavalli di Frisia, Ruggera venne bendato e portato dal generale Giuseppe Battistoni che, nato e vissuto a Trento, parlava perfettamente il tedesco e offrì a Ruggera caffè e sigarette. Si legge la lettera di Weber: chiedeva “di conchiudere immediatamente un armistizio”. La guerra fra Italia e Austria poteva finire in quel momento; gli ufficiali italiani, con comprensibile emozione, si attaccano ai telefoni e a Udine il generale Armando Diaz si trova di fronte ad una decisione difficile. L’arrivo del parlamentare a Serravalle coincideva con lo sfondamento sul Piave, gli italiani erano riusciti a passare il fiume in piena travolgendo le difese austriache e avanzando con risolutezza con un’azione inarrestabile – la prima del Regio Esercito dal maggio del 1915 – che sembrava destinata a concludere la guerra. Ma l’esercito austriaco, in alcune zone del Piave e sulle montagne del Trentino, era ancora efficiente e quella rotta che stava diventando catastrofe, poteva essere fermata solo con la sospensione immediata della battaglia. L’Austria voleva salvare l’esercito, il braccio vigile della monarchia nel mezzo della tempesta delle nazionalità in rivolta attraversate dall’urto rivoluzionario del bolscevichismo.

Al comando supremo italiano si pensa che la richiesta di armistizio fosse un tentativo per guadagnare tempo e salvare il maggior numero possibile di reparti e non si sa se Armando Diaz informò tempestivamente il Governo. Si ritenne opportuno guadagnare tempo, attendere per riflette e così Kamillo Ruggera, il cadetto ferito, il trombettiere, l’alfiere con la bandiera bianca vennero rimandati indietro. Ci voleva un plenipotenziario munito di credenziali e di poteri decisionali. Era la sera di martedì 29 ottobre e il giorno dopo non accadde niente. O meglio, il Regio Esercito entrò in Conegliano e nel consueto e giornaliero bollettino del comando supremo, non si accennò alla bandiera bianca comparsa a Serravalle. Così la guerra continuava e dalla sera del 29 ottobre a quella del 3 novembre, quando sul fronte italiano la guerra finalmente cessò, morirono altre centinaia di soldati. Austriaci sui quali si avventavano con furia spietata i reparti d’assalto italiani che non facevano prigionieri e italiani che cadevano di fronte alle ultime, disperate resistenze di un esercito in rotta. Di quest’ultima strage non c’è quasi traccia nella storiografia: Fiamme Nere e cavalleria avanzarono come furie oltre il Piave: l’ordine non scritto, era: «Vendicare l’onta di Caporetto».
 

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