Così spararono a Moro

Così spararono a Moro

di Luigi Sardi

Quel 9 di maggio di quarant’anni fa era un martedì. Al numero 8 di via Montalcini la terrorista Anna Laura Braghetti non aveva allungato a Moro il necessario per radersi, né il caffè latte e i biscotti per la colazione. Nella “prigione del popolo” tutto era pronto per eseguire la condanna a morte. Nel box del garage era parcheggiata la R4 rubata qualche giorno prima, che sarebbe stata la bara del presidente. Invece le armi per uccidere erano state preparate la sera prima. Non sappiamo con quale scusa Moro sia stato convinto ad entrare nel portabagagli. Sapeva che stava per morire e forse i brigatisti gli dissero che doveva essere trasferito. Quando Moro era ormai adagiato, lo coprirono con una coperta di lana color cammello. Perché non vedesse.

Perché il boia e i suoi complici non vedessero il volto del condannato. Diamine, anche i carnefici hanno un po’ di sensibilità.
Gli spararono una raffica di pistola mitragliatrice Csa Vz Skorpion calibro 7,65 munita di silenziatore. L’esecuzione sembra finita ma dopo qualche minuto si accorsero che Moro si muoveva ancora e allora gli spararono con una rivoltella Walter PPK calibro 9. Forse a sparare fu Prospero Gallinari che fece ben poco - è morto da tempo – per scrollarsi di dosso quella colpa. Il corteo funebre partì subito mentre nell’appartamento la Braghetti e Gallinari cominciavano a smontare la tetra prigione.

Tutto era stato predisposto per abbandonare il corpo di Moro in via Caetani, a metà strada fra Piazza del Gesù, sede della Dc e via delle Botteghe Oscura, sede del Pci. La sfida al cuore dello Stato era conclusa, l’Italia tutta si trovò di fronte a quel fagotto informe e alzato un lembo di quella coperta, s’intravede il volto di Moro, gli occhi semichiusi, la barba lunga. Una telefonata ovviamente anonima, aveva avvertito il centralino della questura di Roma con un laconico: “In via Caetani c’è un’auto rossa con il corpo di Moro”. Erano le 13,30 di quel 9 maggio di quarant’anni fa. Due ore dopo a Trento una folla era per le strade. Si gridava “Non passeranno mai” e si cantava “Bella ciao” la ballata dei partigiani che dopo l’8 settembre del 1943 avevano sfidato i fascisti della repubblica di Salò, soprattutto i tedeschi di Hitler. Poche ore dopo Francesco Cossiga si dimise da ministro degli Interni e quando, già Presidente Emerito venne a Villazzano a Villa Gelsomino ospite di quell’uomo di culture a di teatro che fu Fabio Storelli, mi disse sottovoce. “Di colpo mi vennero i capelli bianchi”.

Non c’è più la Democrazia Cristiana, non c’è più il Partito Comunista. Non ci sono più le bandiere con lo scudo crociato né quelle rosse con la falce e martello e i superstiti delle Brigate Rosse vivacchiano convinti di essere stati partigiani come quelli che affrontarono il fascismo75 anni fa. E’ scomparso un mondo. E’ finita un’epoca, i morti sono ricordati solo dai parenti sempre meno numerosi dato il tempo che corre in fretta. Gli assassini sono liberi e la memoria di quelle giornate sta svanendo anche perché nelle scuole la storia viene insegnata male e si dimentica in fretta. La prima e la seconda Repubblica sono un ricordo lontano, confuso, quasi svanito nel gorgo di mani pulite, insomma di politici e imprenditori nelle vesti di predoni.

Ci fermiamo sulle immagini che ci fanno più comodo o che ci appaiono più utili o più banalmente, quelle che ancora rammentiamo e allora il miglior ricordo è soltanto nelle parole che nell’ora dell’addio Aldo Moro scrisse alla moglie: “Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte mia dolcissima Noretta in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, coi miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”.
Oggi rileggendo le cronache di quelle giornate vengono in mente i versi di Giuseppe Ungaretti, che tradusse in poesia al tragedia del Carso: “Cessate di uccidere i morti, non gridate più, non gridate”. Cerchiamo di ascoltare le parole di chi è stato sacrificato: Esse “hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba. Lieta dove non passa l’uomo”.

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