Gli omicidi di Fausto e Iaio

Gli omicidi di Fausto e Iaio

di Luigi Sardi

In quei giorni fra il marzo e il maggio del 1978, presi e travolti da quello che sembrava l’inizio di una rivoluzione, c’era stato appena il tempo di occuparsi di un’altra tragedia: l’assassinio a Milano quasi sulla soglia del centro sociale Leoncavallo, di due ragazzini. Due studenti – uno era trentino, si chiamava Fausto Tinelli e a Milano abitava con la famiglia al numero 8 di via Montenevoso – ammazzati da tre killer il giorno dopo il rapimento di Aldo Moro.

Gli assassini non vennero mai scoperti e nel dicembre del Duemila calò il sipario giudiziario su quella tragedia con il decreto di archiviazione firmato dal giudice Clementina Forleo.
Una vicenda puntualmente ricostruita dal giornale l’Adige lunedì 17 marzo 2008 (pagina 5) a firma di Fabio De Santi. L’attenzione dei giornali attorno a quei due ragazzi assassinati in una via di Milano, era stata accantonata perché quarant’anni fa c’erano altre ansie, altre urgenze: l’accumulo dei morti, i comunicati che li rivendicavano, l’invulnerabilità di quella sigla a cinque punte targata Brigate Rosse che sembrava irraggiungibile, la rivoluzione comunista proposta quasi quotidianamente a revolverate, l’incubo della «prigione del popolo» che era un braccio della morte nella quale era stato rinchiuso Aldo Moro il presidente del partito che guidava la giovane Repubblica italiana nata dalle urne il 18 aprile del 1948. E c’era soprattutto, una grande confusione nelle indagini.

Tutto era sovrastato dal ricordo del Sessantotto che era stato un momento di rivoluzione culturale ma anche il crogiolo di moltissimi guai. Erano i temi che tormentavano quella primavera, certamente maledetta ma non nel senso della canzone resa famosa, qualche anno più tardi, da Loretta Goggi. Incombevano quelle due fotografie dell’uomo inerme che dalla prigione brigatista fissava i suoi carcerieri. Spaventava lo stendardo rosso brigatista come oggi spaventa la bandiera nera dell’Isis: colori diversi, ma identica l’angoscia. Struggeva la consapevolezza di vedere lo Stato incapace a scoprire non dico un covo, ma neppure una traccia dei terroristi mentre a Milano giudici in toga e quelli con la fascia tricolore non riuscivano a processare i detenuti indicati come i capi storici delle Brigate Rosse.

Che avevano dichiarato guerra alla nazione e rivendicavano quel «Moro lo abbiamo noi», grido destinato a consegnarli alla storia come criminali.
All’indomani della tragedia di via Fani, a Milano erano comparsi manifesti firmati «Giustizieri d’Italia» un gruppo del quale, francamente, si è saputo solo che era composto da gente della destra estrema, fra i quali – ma sempre per sentito dire – c’erano uomini che dal 1943 al 1945 avevano militato nelle armate della Repubblica di Salò, formando poi le Squadre d’Azione Mussolini, le Sam, presenti negli anni di piombo. Nei volantini, in vero pochi, attaccati ai muri – e uno era stato rivenuto anche a Trento in via San Pio X – promettevano vendetta, dichiaravano che avrebbero sparato «nel mucchio dei comunisti» e ucciso i parenti dei brigatisti per vendicare i Caduti di via Fani.

La sera del 18 marzo del 1978, Fausto Tinelli che aveva 18 anni e con l famiglia si era da poco trasferito da Trento e con lui Lorenzo Jannucci, 19 anni studenti in quel di Milano del liceo artistico e impegnati nei movimenti di sinistra, vennero assassinati nel quartiere Casoretto, in via Mancinelli. Frequentavano il centro sociale Leoncavallo, dove si incontravano i giovani antifascisti di Lambrate e di quell’area cittadina definita la Stalingrado d’Italia, militanti di Lotta Continua, del Movimento Lavoratori per il Socialismo e Marxisti-Leninisti. Dal Leoncavallo trasmetteva la radio «Specchio Rosso».

Nella primavera del 1978 l’eroina era diventata, persino a Trento, una gravissima emergenza sociale: il Leoncavallo aveva organizzato ronde anti spaccio; Fausto Tinelli e Lorenzo Jannucci conducevano con altri ragazzi un’attività di informazione sul traffico della droga e resta il dubbio: vennero uccisi per la loro attività di ricerca sui canali della criminalità o ammazzati da chi aveva deciso di sparare nel mucchio per vendicare via Fani? I «Giustizieri d’Italia» erano attivi soprattutto a Milano e la coincidenza temporale con via Fani e il rapimento Moro farebbe pensare più ad una vendetta dei giustizieri che ad un’azione organizzata dagli spacciatori della droga.

Di certo le indagini su via Fani segnavano il passo e a Milano si comprese che quelle sull’omicidio dei due ragazzi erano arenate. Mentre il Primo Maggio del 1978 milioni di persone riempivano le piazze manifestando la loro opposizione al terrorismo, Enrico Berlinguer e Alessandro Natta incontravano il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti esprimendo un giudizio critico sul modo in cui venivano impiegate le forze di polizia. «Non si scopre nulla e non si seguono le mosse di quanti, nella clandestinità, prendono contatto con familiari e avvocati».  

I giornali scoprirono che nelle indagini sugli scandali del calcio, la procura della Repubblica di Roma aveva affidato il lavoro ad una equipe di magistrati mentre Luciano Infelisi, il pubblico ministero incaricato di indagare sul delitto più destabilizzante della storia della Repubblica disponeva di una sola dattilografa e non venne mai esentato dalle udienze dibattimentali «né dal turno per interrogare gli arrestati per furti di motorette».

Di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta, che gli chiedeva come fosse possibile che tanti uomini della polizia facessero un lavoro inutile ai posti di blocco e non fossero impiegati in un’attività di intelligenza, il procuratore generale Pietro Pascalino disse: «Tante volte si fanno azioni dimostrative per rassicurare la popolazione. Non posso spiegarlo, non spetta me spiegare perché si preferì fare operazioni di parata anziché ricerche. E in quei giorni si fecero operazioni di parata». Questa era l’Italia negli anni passati alla storia come «di piombo».

(sette - continua)

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