Caporetto e quell'accusa di viltà

Caporetto e quell'accusa di viltà

di Luigi Sardi

Era la mattina del 24 ottobre di cento anni fa quando a Milano, in Piazza del Duomo e nella Galleria Vittorio Emanuele II, gli strilloni del Corriere della Sera richiamavano con il loro ordinato vociare l’attenzione dei lettori sul bombardamento iniziato dalle artiglierie austriache sulle linee italiane dell’alto e del medio Isonzo.

In quella che era già una notizia angosciante, c’era qualche cosa di più: quel titolo a tre colonne – «I tedeschi compaiono sulla fronte italiana» – aumentava l’inquietudine perché si sapeva che i tedeschi erano combattenti feroci. Tre anni di propaganda franco-inglese, metodicamente raccolta dai giornali italiani, aveva trasformato gli uomini dall’elmo chiodato in Unni, barbari, spietati, che trucidavano i prigionieri, violentavano le donne, tagliavano le mani ai bambini. L’articolo di fondo di Luigi Albertini accennava agli avvenimenti che «si stanno probabilmente per svolgere alla nostra fronte», esternava, come sempre aveva fatto, «la serena fiducia» dettata dalla «abilità indiscussa del Comando e sull’eroismo mirabile delle truppe, come sulla saldezza morale del Paese».

Albertini dirigeva il maggior giornale italiano, quello che più di altre testate aveva portato l’Italia nella guerra e per la prima volta nelle righe di quel fondo si avvertiva un’ansia. Il giornalista era un sostenitore del generalissimo Luigi Cadorna che lo ricambiava tenendolo bene informato e anche la notizia dell’inizio di quel bombardamento che per violenza non aveva precedenti sul fronte dell’Isonzo, era stata trasmessa al Corriere in tempo per una ristampa dell’edizione destinata a Milano. Forse con un suggerimento: preparare gli italiani ad affrontare un altro momento molto difficile.

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Al quartier generale di Udine non si era ancora potuto capire che le artiglierie austro tedesche, l’impiego del gas asfissiante di nuova quanto micidiale miscela avevano frantumato trincee, rifugi, capisaldi mentre il gas uccideva all’istante i soldati nella conca di Caporetto. Avevano subito indossato le maschere che, per colmo di sventura, erano – si attendevano quelle promesse dagli inglesi – ancora di tipo antiquato. Nessuno comprese che le truppe d’assalto tedesche e austriache attraversarono le trincee italiane piene di cadaveri e che nella seconda linea, davanti alla valanga di fuoco e al silenzio, inspiegabile e mai spiegato, delle artiglierie italiane, migliaia di soldati decisero di ritirarsi abbandonando quelle sponde dell’Isonzo che poi diventerà Fiume Sacro della Patria ma che, in realtà, erano da oltre due anni, un orribile carnaio.

Saranno i fondi di Albertini a scandire la più sanguinosa delle tragedie militari dell’Esercito italiano. Ecco il bollettino del Comando supremo con l’inquietante «l’urto nemico ci trova saldi e ben preparati», poi «l’avversario riusciva a superare le nostre linee avanzate sulla sinistra dell’Isonzo… l’offensiva nemica ha continuato con estrema violenza» quindi l’accusa di viltà di fronte al nemico, rivolta a quei soldati che dal maggio del 1915 sopravvivevano in condizioni terribili nell’orrore del Carso e morivano a migliaia nella stragrande maggioranza poco o nulla sapendo di Trento, Trieste, di sacri egoismi e confini, sacri anche quelli.

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Poi il quotidiano bollettino di Cadorna annunciava agli italiani che le truppe «non erano riuscite ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria». Era già successo nell’estate del 1916. Quella volta le «orde barbariche» erano state fermate sugli Altipiani al prezzo di centomila caduti ma adesso le cartine topografiche pubblicate dai giornali mostravano il ripiegamento dall’Isonzo al Tagliamento, poi la ritirata dal fiume verso la Livenza e addirittura «alla Piave».

La gente aveva capito che si trattava di qualche cosa di molto grave, cercava sulle cartine geografiche quei fiumi che tagliano la pianura veneta, restava sbigottita all’annuncio di «fatti dolorosi nell’esercito in un punto della nostra fronte» per apprendere un’altra notizia dirompente: il generale Diaz, nome francamente sconosciuto, «è il nuovo comandante supremo italiano».

Dal 24 ottobre al 10 novembre di quel 1917, da Caporetto al Piave, gran parte del Veneto era stato invaso; l’esercito aveva perso 650 mila uomini, 40.000 dei quali morti o feriti, 260.000 prigionieri, 350.000 sbandati, oltre 3000 cannoni, montagne di munizioni, di derrate, di attrezzature abbandonate in quella ritirata divenuta, a tratti, fuga. Ecco la conferenza sul lago di Garda che nei libri di scuola degli italiani prenderà il nome di «convegno di Peschiera» nella quale re Vittorio Emanuele III convinse francesi e inglesi che l’Italia non si sarebbe arresa, che l’esercito avrebbe resistito sul Piave ormai menzionato nei comunicati giornalieri del Comando supremo anche se Cesare Pettorelli Lalatta, uomo di primo piano dei servizi segreti del Regio Esercito era stato incaricato di trovare a Mantova, ben oltre il Mincio, una sede del comando delle forze armate.

Ecco il proclama del re:

Italiani, cittadini, soldati! Siate un esercito solo... Tutti siamo pronti a dare tutto per la vittoria e l’onore d’Italia!

L’appello non giunse alla enorme massa di profughi – donne, vecchi, bambini – che fuggivano davanti al nemico e anche al più superficiale osservatore non sfuggiva il carattere di quella ritirata sempre più disordinata che diventava ribellione pacifica, resa senza condizione di una massa umana inerte, moralmente sfibrata, convinta che la guerra era finita, che la pace era alle porte, pronta a segnare la fine di sofferenze disumane. Sul fronte trentino si abbandonò la roccaforte della Marmolada e Cadorna, prima di essere defenestrato, scrisse al re. Lo informò che una ritirata fino al basso Adige e al Mincio «esporrebbe a perdere quasi tutte le artiglierie, annullerebbe completamente ciò che rimane dell’efficienza dell’esercito, rinunciando anche all’ultimo tentativo di salvare l’onore delle armi».

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Poi la frase, in verità poco nota: «Ho voluto esporre la situazione nella sua dolorosa realtà, sembrandomi meritevole di essere considerata all’infuori della ragione militare, per quei provvedimenti di governo che esorbitano dalla mia competenza e dai miei doveri».

Dunque il capo di Stato Maggiore dell’esercito suggeriva di abbandonare le armi e di intraprendere la via della diplomazia. Poi arrivarono i rinforzi francesi e inglesi e gli italiani, quelli devoti alla Patria, compirono un miracolo.

(3-continua)

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