La Strafexpedition e il ruolo di Cesare Battisti

di Luigi Sardi

È l’alba del 15 maggio del 1916, tutti i cannoni austriaci sparano nello stesso istante e sugli Altipiani fra quei boschi e quei prati di infinita bellezza si scatena l’inferno.

L’artiglieria «aumenta gradatamente il bombardamento, fino a raggiungere un’intensità indescrivibile. Ben presto», si legge nella Relazione ufficiale austriaca, «tutte le bocche da fuoco inquadrano i loro tiri e alle 9 ebbe inizio il tiro d’annientamento suscitando tra i monti un vero uragano. I pezzi erano roventi per il tiro accelerato, il minaccioso sibilo dei proietti attraversava l’aria, seguito da esplosioni terrorizzanti. Le rocce cadevano in frantumi, le fiamme si elevavano e, fra di esse, pezzi di acciaio, blocchi di pietra, alberi divelti e membra umane. Davanti agli sguardi delle fanterie in posizione di attesa, si svolgeva un dramma avvincente... Gli italiani non si ritirano, fuggono. Molti prigionieri».

Tullio Marchetti uno degli ufficiali che mise in piedi il Servizio di informazioni del Regio Esercito e testimone oculare in quelle giornate, nel libro «Ventotto anni nel Servizio Informazioni Militari», scrive: «Quando il 15 maggio l’attacco austriaco si scatena improvviso con la violenza dell’uragano che tutto sconvolge, il centro della nostra difesa, sorpreso, flagellato dal fuoco sterminatore dell’avversario che ha sconvolto tutte le organizzazioni difensive, sopraffatto dal numero, è costretto a ripiegare in disordine. Le truppe di vicino rinforzo sono in breve divorate nella difesa estrema di posizioni conquistate, con aspra fatica, nei mesi antecedenti. L’effetto schiacciante del fuoco delle masse dell’artiglieria nemica, che non sempre le nostre potevano controbattere perché di scarsa gittata, abbatte ogni ostacolo. In breve dovemmo abbandonare la linea principale di resistenza per la situazione che andava progressivamente peggiorando e la ritirata, ricca di episodi di valore, irrorata da molto sangue, punteggiata di cadaveri, continua. La difesa nostra si ridusse all’ultimo sottile diaframma, formato dalle alture che con ripido pendio dominano Schio, Thiene e Bassano».
 
Dal solo altipiano di Folgaria erano entrati in azione 250 cannoni e 120 dalla zona di Lavarone. L’Austria schierò 1477 cannoni moderni fra cui svariati di grossissimo calibro e una quantità illimitata di munizioni. L’Italia aveva in linea 720 pezzi fra cui 400 di vecchio modello e una modesta dotazione di munizioni.

Sono le artiglierie austriache che compiono il massacro e fra i pezzi schierati da Conrad c’è il Lungo Giorgio, «der Lange Georg», un cannone navale costruito dalla Skoda, con una bocca di 35 centimetri. Quel mostro – la sua storia è stata puntualmente raccontata da Luca Girotto – piazzato a Caldonazzo bombardò Asiago e Gallio. Il tiro era diretto da un ricognitore che volava sulla verticale dei bersagli. Quella del Lungo Giorgio è una delle tante e affascinanti storie che costellano l’assalto austriaco.

Il primo anniversario della guerra cadrà sull’Italia con gli austriaci in casa. Altro che una marcia su Vienna come aveva profetizzato Cadorna. Il Governo vacillerà di fronte alla grande sconfitta. Vacillerà il Paese ma nessuno avrà il coraggio di mandare a casa l’inventore delle tragiche spallate sul Carso.

L’offensiva più volte rinviata per le abbonanti nevicate era cominciata e aveva sorpreso Cadorna in procinto di partire per controllare le opere di fortificazione che s’andavano costruendo sul confine svizzero. Nel libro «Pagine Polemiche» il «generalissimo» ha esternato il suo pensiero sulla Strafexpedition: non aveva creduto possibile una azione in grande stile nel Trentino perché «era un’offensiva illogica e a ciò che è illogico non si deve dare credito».

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Non aveva dubbi il Luogotenente generale Franz Conrad von Hötzendorf quando affermava che l’Italia avrebbe tradito gli alleati della Triplice e attaccato l’Austria al grido di Trento e Trieste, soprattutto per diventare una grande potenza nell’Europa dei nazionalismi.
Capo di Stato Maggiore del regio e imperiale esercito austriaco aveva bene in mente le battaglie di Novara e Custoza, di Lissa e Solferino, le giornate di Milano e Brescia, le storie e le leggende del Risorgimento, un’italica fiamma mai spenta nonostante quella alleanza con Vienna e Berlino, accordo fra teste coronate, francamente poco apprezzato dal popolo.

Quello austriaco vedeva negli italiani il «perfido nemico del sud». E gli italiani vedevano negli austriaci il «barbaro nemico del nord». Certo, c’erano i trattati, ma Conrad sapeva benissimo che le carte anche se ricche di firme e ceralacche e accompagnate da brindisi di amicizia si potevano stracciare.

Odiava gli italiani, non sopportava la perdita della Lombardia e del Veneto soprattutto aveva capito che l’irredentismo era una minaccia per l’Impero dove Francesco Giuseppe regnava fra molte voglie di indipendenza in mezzo a popolazioni tenute assieme soprattutto dal suo carisma. Aveva capito che la sua patria era circondata da nemici. A sud gli italiani e i serbi, a est i russi protettori di tutti gli slavi. Aveva capito che prima o poi si sarebbero mossi assieme per assediare la sua terra.
Aveva 54 anni, possedeva una grande energia, una spiccata intelligenza e dal 1906 guidava l’esercito di Francesco Giuseppe al quale era sinceramente devoto.

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Anche lui, come l’Imperatore, vestiva sempre l’uniforme che ad entrambi imponeva un austero portamento militare e obbligava gli altri a mettersi sull’attenti. Faceva parte della casta militare asburgica e comandava un possente esercito in un’epoca, quella agli albori del Novecento, di anarchie, cambiamenti, rivolte, passioni politiche. E del socialismo che, sostenuto dagli intellettuali, spaventava clero, nobili, borghesi e militari.

Conrad sapeva che quella fra l’Italia e l’Austria era un’alleanza che, stipulata nel maggio del 1882, restava sempre molto incerta e già nel 1903, come comandante della difesa del Tirolo, aveva maturato la convinzione di un attacco all’Italia partendo dagli Altipiani. Cominciò a fare del Trentino un trampolino di lancio per l’esercito regio e imperiale, costruendo strade, caserme, fortezze, estendendo gli inviolabili vincoli militari là dove vedeva la possibilità di accantonare le sue truppe.

Quando nel 1909 propose a Francesco Giuseppe un attacco preventivo per debellare una volta per tutte l’italico nemico, l’Imperatore gli disse di no, aggiungendo che «l’Austria non ha mai cominciato una guerra». Conrad gli  rispose un secco «purtroppo, Maestà!».

Ma l’Imperatore fedele alle Triplice Alleanza, anche se non credeva che gli italiani avrebbero rispettato gli accordi, fu categorico e Conrad tornò a perfezionare il suo progetto, cioè l’attacco dal Trentino attraverso i monti e i boschi e i prati dell’Altipiano.

Arrivò l’agosto del Quattordici con la neutralità dell’Italia che permise ai francesi di ritirare la flotta dal Mare Tirreno concentrandola nella Manica, sguarnire le Alpi e inviare le truppe fatte scendere dalle montagne di confine con l’Italia a fermare l’avanzata germanica su Parigi. Conrad capì subito che la neutralità era solo momentanea e Roma avrebbe tradito la trentennale alleanza con Vienna. Come avvenne in quel 24 maggio del 1915, radioso per il Regno, tragico per il Trentino.

Di fronte a Conrad sta il conte Luigi Cadorna, uno dei protagonisti di quella guerra di cento anni fa bollata da Papa Benedetto XV come «inutile strage». Negli anni Venti, nel suo ritiro di Pallanza sul Lago Maggiore era solito dire: «Ho comandato il più grande esercito italiano dai tempi dell’antica Roma», e sotto il suo inesorabile pugno di ferro guidò milioni di soldati di un’Italia ancora contadina e in parte analfabeta, costringendoli a combattere nell’orrore delle trincee dell’Isonzo, del Carso e dei monti del Trentino dal 24 maggio del 1915 fino alla catastrofe di Caporetto che lo spazzò via mentre gli italiani, di fronte all’enormità di quella sconfitta, si ritrovavano forse per l’unica volta, un popolo orgogliosamente unito.

Cadorna aveva consolidato alcune incrollabili certezze. Anche se sui fronti dell’Europa durava da 10 mesi ed era già una strage di uomini, un’enorme distruzione di materiali e sembrava destinata a non finire mai, garantiva agli italiani che la guerra contro l’Austria sarebbe stata sicuramente breve e si sarebbe risolta prima di Natale in uno scontro, ovviamente vittorioso, nelle pianure dell’impero asburgico.
Bisognava solo attraversare il Carso che la leggenda vuole non creato da Dio ma dal demonio, e puntare su Lubiana. Il generale aveva in mente un piano strategico di sapore napoleonico: mentre il Regio Esercito con «una energica e improvvisa irruzione della Seconda e Terza armata» doveva varcare in massa l’Isonzo, i serbi e i russi dovevano congiungersi a est, dopo aver sbaragliato gli austriaci.

E il fronte del Trentino? Risalendo dalla pianura, l’attacco agli Altipiani richiedeva concentramenti d’artiglieria che l’Italia non aveva e l’avanzata su Trento lungo il corso dell’Adige venne presa in scarsissima considerazione. Francamente ancora oggi non si capisce la ragione di quella rinuncia.

Tornato dal fronte della Galizia per fronteggiare gli italiani, Franz Conrad si preparava a saldare i conti con gli odiati nemici e tira fuori dal cassetto l’antico progetto. Aveva capito che, preso com’era dai furibondi quanto inutili attacchi sul Carso, Cadorna aveva trascurato il Trentino e così aveva deciso: un attacco dall’Altipiano dei Sette Comuni lungo la valle del torrente Astico per puntare su Vicenza, Padova e arrivare a Venezia, al mare, chiudendo in una enorme sacca le masse italiane fra il Brenta e l’Isonzo.

Sarà quella che passerà alla storia come Strafexpedition, una delle più formidabili battaglie della Grande Guerra, la più imponente combattuta su un terreno montuoso, inospitale, aspro, percorso da rare ed erte mulattiere. Anche per quella impresa fortunatamente fallita per l’Italia – le pattuglie di punta austriache arrivarono in vista di Piovene Rocchette – il Feldmaresciallo è entrato nella storia come lo stratega di piani offensivi grandiosi, che però non hanno tenuto pienamente conto delle difficoltà del terreno, del mutare del clima sulle montagne, delle potenzialità del nemico. Come avvenne sul fronte trentino dove l’attacco dall’Altipiano fu la prima, grave minaccia per l’Italia.

Era il 10 dicembre del 1915 quando Conrad comincia a mettere a punto il suo piano. Ha capito che l’esercito italiano proiettato sul Carso, ha subito gravi perdite di uomini e materiali nelle inutili offensive dei mesi precedenti – le famose quanto tragiche «spallate» – e ha trascurato il Trentino e chiede aiuto a Enrich von Falkenhayn, il generale che guida l’esercito germanico sul fronte occidentale e sta preparando quella che a Verdun sarà una enorme quanto inutile strage.

Convinto che una disfatta del Regio Esercito avrebbe costretto l’Italia a concludere la pace, nel chiedere a Berlino l’appoggio di truppe scelte, dimostra che gli italiani, arroccati sull’Isonzo, sono in grave crisi di uomini, munizioni, artiglierie mentre nelle città del Regno la situazione dell’ordine pubblico si stava facendo difficile in seguito ad un crescendo di privazioni e, soprattutto, al numero enorme dei morti, dei feriti, dei mutilati, dei prigionieri, dei dispersi che aveva spaventato gli italiani.

Ma la Germania non è in guerra con l’Italia, Berlino non voleva aprire un altro fronte; invece preferisce tenere, attraverso la Svizzera, uno spiraglio, sia pure costoso, per poter importare materiali necessari come foraggio, stoffe per indumenti militari, bestiame e prodotti che arrivavano dal Cile, indispensabili per le industrie chimiche germaniche. Poco in verità ma era necessario mantenere quel pertugio che passava per Chiasso dove i controlli, dichiarati severissimi dagli italiani, erano sapientemente addomesticati.

Conrad decide. Avrebbe fatto da solo. Sapeva che le sue truppe lo avrebbero seguito anche con il cuore. Però commise tre incredibili e fatali errori. Non mobilitò le armate schierate sul Carso per un’azione diversiva e fissò la data per l’attacco alla metà d’aprile senza tener conto che quello è un mese difficile sul piano meteorologico e che quell’inverno particolarmente rigido aveva sepolto gli Altipiani con metri e metri di neve. E disprezzando gli italiani sottovalutò il loro valore, decisivo nei momenti più duri della battaglia.

La scarsa attenzione alla meteorologia e il non aver ordinato attacchi sia pure dimostrativi nella zona dell’Isonzo per evitare il trasferimento di rinforzi, faranno fallire la grande impresa, l’ultima con firma solo austriaca.

È documentato dai suoi scritti, che Cesare Battisti aveva appreso dall’interrogatorio di disertori e prigionieri raccolti nel Forte Procolo di Verona, l’imminenza di un’offensiva austriaca sul fronte degli Altipiani e proprio Battisti fu fra i primi ad intuire il grande disegno strategico di Franz Conrad von Hötzendorf, quell’attacco che permetterà agli austriaci di calpestare il sacro suolo della Patria italiana, di entrare ad Asiago e Gallio e Arsiero ridotti in macerie.
 
Battisti raccolse un crescendo di notizie sulla Spedizione Punitiva di Conrad: l’arrivo alla stazione di Calliano e Mattarello di materiali destinati agli Altipiani, l’allestimento a Folgaria, Lavarone, Luserna di grandi baraccamenti per ricoverare uomini e derrate trasportati con camion e carriaggi, la costruzione di teleferiche, persino un volantino con scritto un ordine del giorno del generale Viktor Dankl von Krasnik, reduce dalla Galizia, dalle rive del San nel quale si legge: «Presto, o Kaiserjäger, suonerà la grande ora nella quale annienteremo per sempre il perfido nemico. Per la salute della Patria e la gloria dell’eccelso Imperatore e Re e Supremo Comandante Francesco Giuseppe».

A margine di quel documento, Tullio Marchetti il fondatore di quel servizio informazioni militari nel quale Battisti era entrato ufficialmente nel 1913 ma che lo vedeva collaborare già dal 1902, scrisse che quel «perfido» alludeva all’Italia e con note di profondo rispetto, avvertì il Comando Supremo che i Kaiserjäger erano «reparti austriaci con valorose e gloriose tradizioni, sempre impiegati come truppa d’assalto e di sfondamento».

Dai Draken Ballon, i palloni frenati che potevano salire fino a 600 metri, gli osservatori segnalavano arrivi di treni, colonne di camion, di carri e le fotografie aeree, controllate con grande pazienza e abilità dai tenenti Livio Fiorio e Mario Scotoni, trentini arruolati nel Regio Esercito, rilevarono nuove e numerose postazioni per l’artiglieria.

Marchetti riferì tutto al Comando Supremo e ricevette come risposta un iroso: «Credo doverti, per amicizia, avvertirti che presso il Comando Supremo e precisamente presso il nostro Principale, c’è una forte corrente ostile a te». Insomma a Udine si dimostrarono seccati dalle informazioni che davano come probabile un’offensiva dal Trentino. Alle quali non volevano credere perché Cadorna – lo scriverà nelle sue memorie – riteneva impossibile un’azione in grande stile fra quelle impervie montagne e quelle vallate altrettanto aspre.

Battisti aveva cercato di contattare Cadorna che non lo aveva ricevuto. Tra il 10 e il 14 aprile del Sedici – lo si evince dalle date delle lettere dirette alla moglie nelle quali narrava minutamente e quasi giornalmente gli avvenimenti del fronte – si reca forse per la terza volta a Quartier Generale di Udine e finalmente riesce a parlare con il sottocapo di Stato Maggiore Carlo Porro e con il maggiore Ugo Cavallero, il futuro Maresciallo d’Italia e Capo di Stato Maggiore di Benito Mussolini, il generale che a Frascati si sparerà – o sarà «suicidato», il dubbio rimane – il 13 settembre del 1943 subito dopo la resa del Regio Esercito agli Americani sbarcati in Sicilia.

Battisti comunica quanto ha raccolto dai prigionieri austriaci, indica le direttrici dell’offensiva, il numero delle divisioni, dei cannoni di grosso calibro, persino i punti dove sono stati piazzati, il giorno e l’ora dell’attacco, i reggimenti già schierati e quelli in arrivo. Insiste nel tentativo di dimostrare l’autenticità delle notizie raccolte, il pericolo che si sta addensando verso il Veneto. Porro che da molto tempo conosceva e apprezzava Battisti proprio per la sua intensa attività di informatore, rimane impressionato ma sarà proprio Cavallero, infastidito per le insistenze del trentino, a ironizzare sugli argomenti e i timori con quel «sì, tenente, Sua Eccellenza ha capito benissimo», mettendolo così alla porta.

Forse è una frase inventata ma riassume la povertà di intelligenze negli alti comandi e il clima di sospetto e di sufficienza che accompagnava, nei vertici dell’italico esercito, la figura del deputato per la città di Trento al parlamento di Vienna. Tutti sapevano che era di sentimenti italiani ma era cittadino austriaco e veniva visto con diffidenza dagli ufficiali di carriera perché aveva cambiato bandiera. Che era solo un tenente ma voleva conferire addirittura con Cadorna per spiegargli come fare la guerra e poi si sapeva che il «generalissimo» non credendo nell’offensiva austriaca, non voleva essere contraddetto.

Lo scetticismo che accompagnava le informazioni raccolte sui concentramenti di truppe austriache era totale fra i vertici del Regio Esercito da tempo informati che la Russia stava preparando una «potente azione» in Galizia. Anche gli austriaci erano informati e a Udine si era certi che non avrebbero mai distolto truppe dal fronte dell’est per portarle nell’ imbuto degli Altipiani.

Di fronte allo scetticismo del Comando Supremo e alla certezza dell’imminenza di un attacco violento – ma nessuno fu in grado di ipotizzare la reale portata – Battisti compila il progetto che prevede il bombardamento «chirurgico» di Trento. Scriverà Marchetti: «Al suo attivo Cesare Battisti conta un interessante studio del 10 aprile 1916 sull’abitato di Trento. Per indicare come sarebbe stato possibile a dirigibili e aeroplani bombardare gli edifici militari e gli immensi depositi di munizioni e di provviste che gli austriaci vi concentravano in preparazioni della Strafexpedition senza recare grave danno alle case private e risparmiando i più insigni monumenti».

Lo studio è completato con una pianta di Trento stampata alla scala 1:6000 sulla quale si differenzia a vivaci colori la zona monumentale dalle altre quattro di importanza militare, quelle che si dovevano bombardare per colpire i depositi di materiale destinati ad essere trasferiti sugli Altipiani.

La guerra e la storia seguono il loro corso. Sottovalutando gli italiani e certo dello sfondamento del fronte, il generale Conrad non aveva preparato un’azione solamente dimostrativa lungo l’Isonzo e così mentre la strage si abbatte sui soldati italiani, Cadorna mobilitando centinaia di autocarri, riuscì a spostare i rincalzi necessari ad arrestare con enormi sacrifici la valanga austriaca.

Prelevati dal fronte dell’Isonzo e dalle caserme di Palmanova, caricati su colonne di camion – i famosi Fiat 18 Bl – che marciavano in lunghissime file, migliaia di soldati vennero trasferiti verso la valle dell’Astico.
Per mantenere la disciplina, evitare allontanamenti dai reparti, ritardi negli spostamenti, i soldati erano costretti a tenere in spalla lo zaino, in pugno il fucile, calzato l’elmetto e non abbandonare i veicoli sui quali erano stati ammassati.

Forse le vicende di quella tragedia sono accompagnate da mole, inevitabili leggende, ma è certo che in quelle giornate di un maggio divenuto all’improvviso davvero torrido, mentre sugli Altipiani infuriavano violentissime bufere di neve, impossibilitati a rifornirsi d’acqua per non creare ingorghi alle fontane, coperti di polveri soprattutto quelli trasferiti con gli automezzi – stranamente si impiegarono pochissimi treni – arrivarono sfiniti per essere subito impiegati in furiosi combattimenti per tamponare le falle aperte fra le file del Regio Esercito. Cadorna, aggiunge Marchetti, «raccoglie le poche truppe che ha sottomano e le lancia alla disperata nel vortice della battaglia, onde prolungare la resistenza e ritardare l’avanzata dell’Esercito austriaco».

Il 20 maggio il generalissimo ordina la costituzione della Quinta Armata con forze sottratte al fronte isontino, da concentrare nella plaga Bassano-Cittadella. Sono 180.000 soldati e 35.000 quadrupedi. Con un miracolo logistico fu pronta il 2 giugno, ma in realtà non fu mai operativa perché dei cinque corpi d’armata che dovevano formarla, due – i primi arrivati – vennero lanciati sugli Altipiani e ivi spezzettati per colmare le falle. Non fu un’armata, ma un serbatoio occasionale, dal quale si trassero uomini e mezzi per imbrigliare gli austriaci fra i monti.

Mancavano le carte topografiche della nuova zona, non c’era coordinamento fra i reparti mossi alla rinfusa. Scrisse ancora Marchetti: «Non dimenticherò mai lo stato pietoso in cui giungevano le truppe di rincalzo. Si vedeva da lontano una lunga scia di polvere, si udiva il cupo rumore di centinaia di autocarri che, arrivati, si serravano l’uno addosso all’altro. Ne discendevano non uomini, ma mugnai, tanto erano bianchi di polvere, sporchi, accecati, assetati sino allo spasimo, stanchi, con le ossa rotte. Acqua, acqua gridavano e la popolazione faceva di tutto per accontentarli. Un rancio freddo di viveri di riserva, una breve sosta e poi via su per l’aspra salita, mandati subito al fuoco in terreno sconosciuto, senza sapere quale zona dovevano raggiungere. Tutti erano in condizioni deplorevoli».

A guerra finita e divenuto generale, Marchetti documentò che fin dal 1° aprile l’ Ufficio Informazioni della Prima Armata «aveva la certezza di una non lontana offensiva austriaca in grande stile nel Trentino», e raccontò quel gran ballo degli equivoci che avrebbe potuto portare gli austriaci al Po. «Tutto veniva arenato nell’Ufficio Informazioni del Comando Supremo, sulla soglia inviolabile dell’ufficio di Cadorna, chiusa persino ai comandanti d’armata».

Qualche esempio: quando Marchetti riferì che sugli Altipiani c’erano 63 battaglioni austriaci, si sentì rispondere «di restare per quanto possibile, in termini meno esagerati perché 63 battaglioni sugli Altipiani non potrebbero trovarvi posto assolutamente».

Finalmente il «comandissimo» si decise ad ispezionare la zona dove gli austriaci scateneranno l’attacco e trova le difese italiane troppo spostate in avanti. Come ogni generale, anche Roberto Brusati comandante dell’armata che doveva frontegiare i soldati di Corda, faceva di tutto nel tentativo di guadagnare qualche metro di terreno ed era totalmente impreparato alla difesa. Cadorna, l’8 maggio, dunque 7 giorni prima dell’attacco austriaco, lo destituisce – lo «silura» come si diceva nel gergo militare, nominando il conte Guglielmo Pecori Girardi comandante dell’Armata.

Il 3 giugno dopo un lotta selvaggia con i Granatieri di Sardegna, gli austriaci occuparono il Monte Cengio sopra Arsiero. Hanno subito gravi perdite ma davanti a loro s’apriva la pianura. Sembra il crollo ma Cadorna emanò lo storico bollettino: «L’offensiva austriaca è stata nettamente arrestata lungo tutta la fronte di attacco». Sorpresa fra le truppe per l’annuncio del Capissimo: sapeva con esattezza che il giorno 4 si sarebbe sferrata, in Galizia, una colossale offensiva russa. Il telegrafo gli comunicò la notizia tanto attesa: il generale Aleksej Aleksevic Brusilov aveva attaccato con 1938 cannoni il fronte di 400 chilometri compreso fra le paludi di Pripyat e la Bucovina per costringere i tedeschi a distogliere forze da Verdun e trasferite con la massima velocità sul fronte dell’est.
Erano i cosacchi e i siberiani partiti dalla stanitza, gli agglomerati di case fra le betulle, con la tarataika tirata da tre cavalli diretti alla più vicina stazione ferroviaria dove in attesa dei treni si ballava al suono della balalaika. Erano stati addestrati alla meglio e portati al fronte. Una massa enorme di uomini, una selva infinita di fucili.

Per la seconda volta il sacrificio dei russi salva gli alleati. Era già accaduto nel 1914 quando i tedeschi erano alle porte di Parigi e i russi attaccando violentemente all’Est avevano costretto gli austrotedeschi a spostare le loro truppe in Galizia. Questa volta salvarono l’Italia. In quella battaglia morirono 400.000 austriaci, incerto comunque enorme il numero dei Caduti russi: dopo quella strage in Russia comincerà a divampare la rivoluzione. Cadorna conosceva la data dell’attacco che si scatenò puntualmente e l’offensiva austriaca deve rallentare perché moltissimi reparti vengono trasferiti sul fornite dell’est.

Il 29 maggio Cesare Battisti era partito per la prima linea «alla testa di una compagnia di baldi alpini» fra i quali c’era chi, sul Monte Corno, disertando lo segnalò al nemico. Il Battaglione giunse da Recoaro la sera del 30 maggio e il 9 giugno il maggiore Carlo Frattola del Battaglione Vicenza avverte Battisti «che occorre profittare della colossale disfatta subita dagli austriaci in Galizia ed esercitare senza ritardo una pressione sul fronte del Trentino» e Battisti aggiunge: «Bisogna giungere a Bolzano per tagliare le vie di rifornimento ai 600.000 austriaci agglomeri nel Trentino. Garibaldi, se fosse vivo, ci riuscirebbe. Cadorna non so. Comunque l’Italia è ora salva. Dovrebbe vincere e non figurare di dover la sua salvezza alla Russia».
Proprio in quel giorno si scatenò la battaglia al Passo Buole, quel valico nelle Prealpi venete fra il gruppo della Carega e il Coni Zugna definito le Termopili d’Italia dove i fanti delle brigate Sicilia, Taro e Padova si scontrarono con il Terzo Reggimento Landesschutzen. Gli italiani a prezzo di enormi sacrifici, bloccarono la discesa degli austriaci nella Valle dell’Adige.

E comparve per i tipi della casa editrice  «L’Eroica» la Sagra di Santa Gorizia scritta da Vittorio Locchi morto nell’inverno del 1917 nell’affondamento del trasporto truppe Minas silurato da un sottomarino austriaco al largo di Capo Matapan. Scriverà nella famosa, oggi quasi dimenticata, ballata che riassume «la passione di Maggio», l’ansia e il patire degli italiani in quelle giornate. Veniva insegnata a scuola, la si imparava a memoria, la si recitava in coro. E si capiva che quella guerra era stata tremenda. Per comprendere che era stata anche inutile.

Ed ecco che improvviso un grido venne da lontano. Chiamano i nostri fratelli, le guardie del Trentino. Dicevano d’accorrere, d’accorrere, di precipitarsi: che il nemico sbucava da tutte le macchie, da tutte le grotte, da tutte le caverne, dalle valli, dai monti, a torme enormi a valanghe, e si buttava urlando contro le porte d’Italia.

Il richiamo è ai soldati dell’Isonzo che da un anno attendevano di passare quel fiume, di entrare in Gorizia, di arrivare a Trieste. E partirono le brigate, le divisioni dell’Isonzo in lunghe file d’elmetti, su colonne infinite d’autocarri volanti a marce forzate, senza bivacco, col pane nel sacco e l’ansia fra i denti. Ecco la ballata raccontare i fanti che scendono dal San Michele, dal Calvario, dall’Hermada e lasciano le rive dell’Isonzo, spinti verso gli Altipiani fra il rombo dei motori, l’assordante plan plan delle cintelle delle trattrici che tiravano i pezzi grossi come elefanti, lunghi come campanili che dovevano sonare lo stormo tremendo nel giorno di Santa Gorizia ma che, catturati dagli austriaci e portati a Trento come trofei, vennero collocati ai piedi del monumento a Dante. O passione di Maggio! Dalle trincee nemiche, dai cunicoli, dalle ridotte urlavano i Croati, i Bosniaci, gli Ungari ingiurie e lazzi contro il nostro dolore. Ed alzano cartelli con beffarde leggende, pesanti come le loro scarpe chiodate. O Passo Buole, termopile vittoriosa; Coni Zugna, Monte Pasubio, montagne sante d’Italia, azzurre e bianche torri, guardie della Patria!

In questa ballata c’ è tutto il dramma, l’orrore, la paura di quelle giornate; il dramma , l’orrore, la paura di ogni giornata di quella tremenda guerra di un secolo fa. E’ narrata la tragedia di un popolo, quello italiano, costretto a combattere una guerra che non voleva.

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