La dura vita romana del politico novello

La dura vita romana del politico novello

di Lucio Gardin

I risultati elettorali dicono che a Roma il Trentino spedirà delle forze nuove. Speriamo non facciano la fine dell’abete rosso che gli abbiamo mandato giù a Natale. Alcuni ritengono che in politica conti l’esperienza, però quando non ce l’hai sei più aperto a nuovi apprendimenti. Tanto poi, uno l’esperienza se la fa. Anche perché avere esperienza, in politica, spesso significa essere abituati a camminare a due metri da terra (attorniati da «yes man» con la speranza di un incarico da dirigente pubblico), e aver dimenticato il significato della parola umiltà. Ne sono la prova le reazioni di alcuni big nostrani al responso elettorale, tipo che «i trentini hanno votato così perché non hanno a cuore l’autonomia», quando è esattamente il motivo contrario che ha determinato questo voto.

Tornando a tema, il problema di Roma è quando ti ritrovi in mezzo ad altri squali come te però in un posto dove conti meno di una sardina. E siccome non hai nessuna intenzione di umiliarti cercando la considerazione di chi non ti si fila, ti costruisci la tua piccola realtà. La tua «confort zone». E tiri a intascare lo stipendio. Tanto sei a Roma, chi viene a saperlo a Trento? Al contrario, le forze giovani non hanno problemi a fare ciò che ti permette di comprendere - in politica come nella vita - quando è tempo di cambiare, e cioè mettersi in discussione. Il difficile per i nuovi parlamentari sarà il primo periodo perché quando arrivi in un ambiente di lavoro nuovo, all’inizio non ti considera nessuno perché per tutti sei «quello nuovo».

A Roma sono maestri nel farti sentire un estraneo. Ricordo quando lavoravo a La 7 (ai tempi Telemontecarlo) che in quanto ultimo arrivato ero snobbato anche dal parcheggiatore, che voleva il doppio altrimenti mi faceva rigare la macchina. E le prime volte che qualcuno mi chiamava al telefono, al centralino rispondevano «Gardin? No, qui non lavora nessun Gardin!». E io abbassavo la testa e timidamente dicevo «No scusi, saria mì». E l’altro si girava e diceva «Eh? Ma che cognome è?». Inoltre, per aumentare l’umiliazione, quella che mi chiamava era mia madre, perché chiaro, chi può chiamarti se sei quello nuovo? «Sì sto bene… sì tutti simpatici... no, il tortel de patate non lo fanno... daii, ciao e non chiamarmi più qui!».

All’ora di pranzo, con l’entusiasmo di un neofita proponevo «andiamo a mangiare qualcosa?» ma alla fine, qualsiasi cosa dici, ti rendi conto che disturbi sempre. E per non essere classificato come molesto, finiva che mi chiudevo in bagno e lì, lontano dalle tensioni, mi mangiavo il mio bel panino. Diciamo che avevo delle quotidiane sedute di gabinetto. Me la sono passata bene tra quei muri; c’erano acqua, riscaldamento, luce ... col tempo prendi confidenza col water, diventi suo amico. Ma per fortuna nessuno è «quello nuovo» per sempre. Dopo qualche mese è arrivato un altro che è diventato quello nuovo, e così ho iniziato a uscire dal bagno e a comunicare con il prossimo. L’augurio per i nostri nuovi rappresentanti a Roma è di rimanere «quello nuovo» per il minor tempo possibile. Sedute di gabinetto permettendo.

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